Il voto degli altri. Il difficile equilibrio tra principio di uguaglianza, partecipazione e responsabilità democratica

Chi sono gli altri italiani

La definizione di altri per indicare i cittadini residenti fuori dai confini nazionali sottolinea, in maniera provocatoria, come si sia spesso guardato agli “italiani all’estero” quasi si trattasse di un soggetto sociale, culturale e politico omogeneo e immutabile nel tempo e, proprio per questo, essenzialmente diverso dagli italiani nati e residenti nel paese. Ciò che emerge dal nostro studio è, invece, un’articolazione demografica complessa, nella quale convivono diverse cittadinanze, frutto di vecchie e nuove mobilità, e specificità nei processi di costruzione della rappresentanza. Queste differenze sono la risultante di numerosi fattori, quali le politiche migratorie italiane, l’anzianità migratoria, le sollecitazioni provenienti dal contesto politico delle società di insediamento, ma, soprattutto, le leggi sulla cittadinanza del 1912 e 1992.

L’Italia, è noto, ha un passato da paese di emigrazione. Secondo il ministero dell’Interno al gennaio del 2012 si contavano 4.208.977 cittadini iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) (4.455.225, secondo l’Annuario statistico del ministero degli Esteri 2012), pari a circa il 7,5% della popolazione italiana metropolitana. Guardando allo stesso dato nel 2006, si assiste a un incremento di oltre un milione di individui. Dobbiamo credere che si lasci l’Italia oggi con ritmi paragonabili a quella della “grande emigrazione” di fine XIX-inizio XX secolo? O che ci sia stata negli ultimi anni una corsa degli espatriati a registrare la propria residenza estera presso l’Aire?

Iscritti suddivisi per ripartizione estera (31/12/2011)

Iscritti suddivisi per ripartizione estera (31.12.2011) – Fonte Min. Interno

La mobilità in uscita dall’Italia è tuttora non trascurabile, ma l’incremento si spiega prevalentemente con i riconoscimenti di cittadinanza, vale a dire l’acquisizione di un passaporto italiano da parte di discendenti di emigrati, dalla terza generazione in poi. Grazie all’opportunità concessa dalla legge italiana sulla cittadinanza, un numero considerevole di cittadini non comunitari ha così accesso a un passaporto europeo, che garantisce libero accesso al mercato del lavoro in ambito UE e un ingresso senza visto negli Stati Uniti. Per ottenere il riconoscimento, l’unico requisito è dimostrare che l’avo italiano emigrato da cui si discende non abbia mai rinunciato alla cittadinanza di origine. Non sono applicati limiti generazionali a ritroso e non è fatto obbligo di risiedere in Italia, neanche per un periodo limitato. Il riconoscimento per discendenza è automatico, non discrezionale o vincolato alla verifica di legami effettivi – di natura culturale, sociale, economica o politica – con l’Italia. È possibile istruire la pratica presso la rappresentanza consolare italiana competente per il territorio in cui si risiede o, in alternativa, in Italia, presso l’ufficio dello stato civile di un comune. Va da sé che, nella stragrande maggioranza dei casi, l’opzione più percorsa dai discendenti degli emigrati sia quella del riconoscimento all’estero, nel paese in cui si è nati e si risiede. La maggior parte degli italiani “neo-riconosciuti” resta nel paese di prima nazionalità.

Gli unici dati disponibili, forniti dal ministero degli Esteri per gli anni tra il 1998 e il 2010, dicono che oltre un milione di individui ha ottenuto la cittadinanza italiana all’estero attraverso tale procedura. Pur considerando solo le prime 10 nazioni dove è stata ottenuta la cittadinanza, è da notare come l’88,1% del totale assoluto dei riconoscimenti sia avvenuto in paesi non comunitari.

Con la consegna del passaporto presso i consolati, si è anche iscritti automaticamente all’Aire e, dunque, ai registri elettorali di quella ripartizione. Ecco che il dato sugli oltre quattro milioni di iscritti e l’incremento degli ultimi anni si prestano a una lettura più complessa.

 

Acquisizioni estere di cittadinanza italiana per discendenza (1998-2010). Prime 10 nazioni

Acquisizioni estere di cittadinanza italiana per discendenza (1998-2010). Prime 10 nazioni

Come funziona il voto degli italiani all’estero

Due leggi (n. 1 del 17 gennaio 2000 e n. 1 del 23 gennaio 2001) hanno modificato la Costituzione, istituendo una circoscrizione estero (articolo 48), e riservando dodici dei 630 deputati (articolo 56) e sei dei 315 senatori (articolo 57) alla rappresentanza dei cittadini non residenti in Italia. La legge n. 459 del 27 dicembre 2001 ha in seguito disciplinato procedure e sistema di voto, suddividendo la circoscrizione in quattro ripartizioni: Europa; America Meridionale; America Centrale e Settentrionale; Africa, Asia, Oceania e Antartide. Hanno accesso all’elettorato attivo e passivo unicamente i cittadini regolarmente iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire).

La legge stabilisce che il voto sia espresso per corrispondenza, unicamente in occasione di elezioni politiche e di referendum nazionali abrogativi o costituzionali, e consente anche di esercitare l’opzione alternativa per il voto in Italia. Nel primo caso, gli uffici consolari inviano entro il diciottesimo giorno prima delle votazioni i plichi elettorali agli elettori residenti nelle ripartizioni, i quali hanno tempo fino al decimo giorno prima delle elezioni per esprimere il voto e rispedire il plico elettorale, sempre tramite posta, all’ufficio consolare. Ogni ripartizione elegge un deputato e un senatore, mentre i rimanenti due seggi per il Senato e otto per la Camera sono assegnati proporzionalmente, in base al numero dei cittadini iscritti nelle liste elettorali delle quattro ripartizioni.

Il sistema di voto è differente da quello adottato in Italia, poiché è proporzionale e consente di esprimere la preferenza per il candidato. Spiega bene Andrea Gratteri1, però, come il meccanismo di attribuzione dei seggi sia effettivamente proporzionale solo nelle ripartizioni con più di due seggi in palio (Europa e America Meridionale, limitatamente alla Camera), mentre porti a effetti maggioritari nelle ripartizioni con un seggio solo e binominali (un seggio alla prima lista e uno alla seconda) in quelle con due seggi.

La volontà del legislatore italiano del 2001 è stata quella di garantire la partecipazione più ampia possibile da parte degli espatriati e, perlomeno nelle intenzioni, offrire agli italiani all’estero un tipo di rappresentanza “riservata”, di valore simbolico, una sorta di “diritto di tribuna”, che non avrebbe dovuto incidere significativamente sui rapporti tra maggioranza e opposizione. Il rapporto eletti all’estero-eletti in Italia è, infatti, stabilito in una misura fissa di 1 a 52,5 sia alla Camera sia al Senato. Gli eletti all’estero rappresentano così l’1,9% del totale dei parlamentari.

Cosa non funziona nel voto degli italiani all’estero

Sono numerose le criticità della legislazione vigente, a partire dalla difficoltà a garantire un esercizio del voto “personale ed eguale, libero e segreto”, come previsto dall’articolo 48 della Costituzione. Con il sistema attuale, le autorità italiane non hanno alcuna possibilità di verificare la regolarità del voto. È questa forse una delle problematiche più note all’opinione pubblica, per l’attenzione che mezzi di informazione, osservatori politici e magistratura hanno dedicato a episodi di irregolarità nelle operazioni di voto, con interi pacchi di plichi elettorali mai recapitati, ma magicamente riapparsi nel conteggio dei voti – c’è un’indagine in corso in merito, per quanto avvenne in Argentina e Venezuela nel 2008, che coinvolgerebbe Juan Esteban Caselli e la ditta di spedizione di Oscar Andreani, argentino di origine calabrese, alla quale si appoggiano i consolati italiani per l’invio delle schede. Un altro aspetto conosciuto riguarda casi di illegittimità nella candidatura – false residenze all’estero – che hanno interessato alcuni degli eletti.

In realtà, non pare particolarmente difficile trovare una soluzione a entrambi i problemi, considerando che anche altre nazioni, tra quelle che contemplano l’esercizio del voto all’estero, hanno adottato con minori inconvenienti il voto a distanza. Sarebbe sufficiente una maggiore controllo sui requisiti di candidabilità e l’introduzione del voto elettronico o in loco, presso i consolati, come d’altronde già avviene per molti paesi e per il voto dei cittadini italiani residenti in uno stato membro dell’Unione, in occasione delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo.

Entrando un po’ più nel tecnico, si è detto come l’intenzione del legislatore, con la scelta di istituire seggi dedicati, fosse di garantire la partecipazione agli elettori all’estero e assegnare agli eletti una sorta di diritto di tribuna. In realtà, la legge ha finito per delineare una sorta di discriminazione positiva in favore di elettori e candidati all’estero rispetto a elettori e candidati metropolitani. Prima di tutto, gli elettori esteri possono esprimere preferenze, mentre in Italia si hanno liste bloccate, e possono scegliere per quale circoscrizione votare, l’italiana o l’estera. La candidatura è riservata unicamente a chi risiede all’estero. Lo svolgimento della campagna elettorale, in Italia, è disciplinata molto rigidamente, specialmente in materia di finanziamento e accesso ai mezzi di informazione per la comunicazione politica con la legge sulla cosiddetta par condicio, mentre all’estero ogni intervento da parte della Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi e dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni diventa impossibile, per l’evidente limite di sovranità territoriale.

Inoltre, se si confronta il rapporto elettori/eletto con quello votanti/eletto, ponendo quindi l’accento sull’effettiva partecipazione, il carattere del voto e della rappresentanza all’estero non appare poi tanto simbolico.

Fonte: G. Tintori, Il voto degli altri (2012) p. 200. Elaborazione su dati ministero dell’Interno, Archivio storico delle elezioni.

Fonte: G. Tintori, Il voto degli altri (2012) p. 200. Elaborazione su dati ministero dell’Interno, Archivio storico delle elezioni.

I veri punti critici, però, sono strutturali e legati a una legislazione, prodotto di una volontà risarcitoria e di un dibattito avulso dalle dinamiche migratorie dal secondo dopoguerra in poi, concepita con mente e sguardo rivolti alla “grande emigrazione” di fine 1800-inizio 1900.

Siamo solo noi?

L’Italia è uno dei molti paesi al mondo, circa l’80% del totale, che autorizzano il voto all’estero. L’esercizio dei diritti politici da parte di cittadini assenti dal territorio nazionale non è neppure una novità della storia recente. Ciò che rende un po’ più peculiare il caso italiano, invece, è l’adozione di seggi parlamentari riservati agli eletti da cittadini residenti all’estero, in rappresentanza di ripartizioni elettorali esterne al territorio nazionale. Al momento, sono solo tredici gli stati al mondo che prevedono circoscrizioni estere e parlamentari eletti fuori dai confini. In Europa, insieme all’Italia, sono Croazia, Francia e Portogallo. Tuttavia, l’Italia si contraddistingue per l’alto numero di seggi dedicati agli elettori esteri: dodici parlamentari e sei senatori. Anche la Francia ha recentemente modificato la propria legislazione in materia, nel 2008, e ha portato a undici i rappresentanti dei francesi all’estero all’Assemblea nazionale. Al Senato, è prevista l’elezione di dodici rappresentati dei residenti all’estero, la cui elezione è, però, indiretta e il loro “peso” politico è di fatto ridotto (si veda nel libro l’ottimo capitolo di Eugenio Balsamo).

Per quanto riguarda le modalità di voto, di nuovo, non sembra che il nostro paese costituisca un’eccezione. Il tanto discusso voto per corrispondenza è adottato da numerosi paesi, addirittura per il voto all’interno dei confini. Una caratteristica, invece, evidenziata unicamente dalla legge italiana è la discriminazione nelle modalità di registrazione e partecipazione al voto verso i cittadini temporaneamente all’estero o espatriati di prima generazione, in favore dei discendenti dalla seconda generazione in su. La legge, infatti, rende la partecipazione elettorale all’estero più difficile per i cittadini di prima generazione, temporaneamente o meno fuori d’Italia, rispetto a coloro che ottengono il riconoscimento della cittadinanza italiana come discendenti. Ciò si riflette anche nella rappresentanza, in prevalenza espressione della cosiddetta “vecchia emigrazione”.

Uno scontro tra generazioni?

La legge sul voto all’estero non considera le grandi differenze nella composizione della popolazione italiana fuori dai confini nazionali. Una distinzione fondamentale, infatti, è se vi sia una presenza maggioritaria di cittadini di prima generazione o dalla seconda-terza generazione in poi nelle comunità estere. In America Meridionale, la popolazione di cittadinanza italiana è formata in prevalenza da discendenti di emigrati. Lo stesso dicasi per l’America Settentrionale, dove però la componente di un’emigrazione recente, altamente qualificata e politicamente attiva, sta ritagliandosi una certa visibilità. Una situazione simile si riscontra anche in Oceania. In Europa, i flussi cospicui del dopoguerra, la vicinanza geografica e i nuovi flussi legati al regime di libera circolazione hanno mantenuto alti i numeri di espatriati di prima generazione.

La legge attuale appare particolarmente inadeguata rispetto alle cosiddette “nuove mobilità”, i flussi più recenti. Una prima dimostrazione di ciò sta nel fatto che una larga parte dell’elettorato estero, ma per certi aspetti anche della rappresentanza, è composta da chi ottiene la cittadinanza per riconoscimento, discendenti di emigrati con legami e interessi sottili, se non del tutto assenti, verso la vita politica del paese, i quali sono iscritti automaticamente all’Aire al momento della consegna del passaporto. Mentre la medesima iscrizione è molto più problematica e necessita l’atto di una richiesta attiva di adesione alle liste elettorali, per quanti si trovino più o meno temporaneamente all’estero o vivano nel contesto delle nuove mobilità, spesso caratterizzate da un’alta frequenza di circolarità e turn over geografico. Proprio in questi giorni, abbiamo seguito tutti la campagna di protesta promossa dagli studenti Erasmus italiani, di fatto esclusi dal voto per le prossime elezioni, a causa del regolamento di iscrizione alle liste elettorali. (Si veda in merito la nota di approfondimento di Viviana Premazzi nel forum).

Premettendo che, specialmente nella ripartizione Europa, stiamo parlando di una realtà in continua trasformazione, la nostra analisi ha evidenziato che, in genere, la formazione di una rappresentanza è stata raramente una risposta a un avvertito deficit democratico. La nuova architettura istituzionale, creatasi con le leggi del 2000-2001, ha prodotto un incremento di visibilità di élite locali già consolidate, più che un incremento della loro effettiva rappresentatività. Nella maggioranza dei casi, si tratta di espressione di interessi radicati, spesso non immuni da logiche e rapporti di natura clientelare, connessi all’associazionismo a carattere etnico-regionale, alla rete delle camere di commercio estere, ai patronati Acli, Ital-Uil, Inca-Cgil.

L’articolazione dei cittadini italiani all’estero in discendenti ed espatriati di prima generazione si sta progressivamente trasformando in divisione politica, in termini sia di domanda di rappresentanza sia di agenda. È sufficiente, in questi giorni, leggere alcuni blog e ascoltare interventi in trasmissioni radiofoniche da parte di cittadini all’estero, per rendersi conto di quanto il fenomeno sia in rapida evoluzione. La ripartizione America Meridionale, per gli effetti descritti della legge sulla cittadinanza italiana, è destinata a espandersi demograficamente nei prossimi anni fino a superare di gran lunga la ripartizione Europa, tradizionalmente la prima per presenza di cittadini ed elettori italiani all’estero. Già in occasione di queste elezioni, la ripartizione Europa perderà un rappresentante alla Camera in favore dell’America Meridionale.

Sarà molto interessante osservare se le elezioni di quest’anno porteranno novità. Qualche segnale di un conflitto “generazionale” è già emerso, all’interno di ciò che molto genericamente definiamo “italiani all’estero”.

Ciò ci porta al punto fondamentale, vale a dire il corto circuito che si è innescato tra legge sul voto e legislazione sulla cittadinanza.

La forza del passato, la sfida del presente, il coraggio del futuro

Il libro muove dalla considerazione che non esiste una dicotomia tra un noi – idealmente, gli italiani residenti nel paese – in contrapposizione agli altri italiani – i residenti all’estero, anche se riteniamo che sia stato forse questo uno dei vizi all’origine di una legge mal concepita e poco funzionale. Esistono, semplicemente, i cittadini italiani, con tutti i diritti connessi allo status civitatis, inclusi i diritti politici. Detto questo, le mie conclusioni affrontano la questione di come conciliare il principio di uguaglianza dei diritti tra tutti i cittadini, con i criteri, altrettanto fondamentali in democrazia, di legame effettivo con il paese di origine e di partecipazione piena alla vita politica della nazione, soprattutto in termini di esposizione alle conseguenze delle decisioni che si contribuisce a prendere con il proprio voto. Dialogando con la letteratura scientifica che si è occupata di cittadinanza extra-territoriale, vanno oltre il caso italiano e tentano di rispondere alle domande: fino a quale generazione è giusto consentire di mantenere la cittadinanza a chi lascia definitivamente il paese di origine? Come risolvere questa tensione tra principio di uguaglianza tra tutti i cittadini, da una parte, e il criterio di “interesse effettivo” e soggezione alla legge, dall’altra? Questioni che, in un contesto globale di maggiore tolleranza di cittadinanze plurime, pongono seri dilemmi di carattere normativo e applicativo.

Ragioniamo su possibili soluzioni, come quella proposta, tra gli altri, dal politologo Rainer Bauböck, il quale ritiene opportuno differenziare la conservazione della cittadinanza extra-territoriale tra le generazioni successive alla prima. Bauböck propone di mantenere la cittadinanza alle seconde generazioni, come d’altronde consentono quasi tutte le legislazioni, vincolandola però a un’espressione di volontà al compimento della maggiore età, ma di porre un limite alla terza generazione. Alla base del ragionamento di Bauböck sta la considerazione che, mentre la prima e la seconda generazione hanno spesso ancora legami sociali, familiari, culturali, economici diretti con lo stato d’origine, per le terze generazioni e successive è più che scontato ipotizzare che il loro orizzonte di vita sia solidamente rivolto altrove e che i legami con lo stato di emigrazione siano oramai troppo deboli, per giustificare una loro inclusione per discendenza nella cittadinanza di quel paese.

Anche sul diritto di voto all’estero, la letteratura specializzata suggerisce di differenziare su base generazionale, escludendo le successive alla prima o, quantomeno, vincolare l’esercizio del voto a una verifica periodica di un interesse, attivo ed effettivo, a mantenere un coinvolgimento nelle vicende politiche dello stato di origine. Tali limitazioni o verifiche poggiano su un valido argomento normativo, se consideriamo che giurisdizione e sovranità dello stato di origine sui cittadini all’estero sono fortemente limitate.

Un primo intervento, davvero minimo, ed è una soluzione adottata da numerosi stati, potrebbe consistere nel voto in loco ai consolati o richiedere a tutti i cittadini all’estero, indistintamente, l’iscrizione alle liste elettorali, se non in occasione di ogni consultazione, perlomeno a scadenze regolari, abolendo la coincidenza meccanica tra Aire e registri elettorali. Per quanto riguarda la rappresentanza, interessante è l’esempio della Croazia, dove una legge del 1995 aveva creato una circoscrizione estero e riservato dodici seggi per gli eletti fuori dai confini territoriali. In seguito, si è modificata la legge in modo che i croati all’estero possano ora eleggere fino a un massimo di sei deputati. Il numero concreto viene determinato a ogni elezione attraverso una formula che mette in relazione il numero di voti “esteri” effettivi con la media dei voti necessari a ottenere un seggio in Croazia.

Le soluzioni alle molte criticità evidenziate dalla legislazione in materia di voto all’estero non possono prescindere da una riforma della legge sulla cittadinanza. Per le generazioni di cittadini all’estero dalla seconda in poi, lo stato italiano potrebbe prevedere per l’accesso ai diritti connessi con la cittadinanza piena, tra i quali l’elettorato attivo e passivo e la libera circolazione nel territorio di Schengen, requisiti che dimostrino la conservazione di legami effettivi con il paese – per esempio, test di conoscenza della lingua e di integrazione civica o un periodo significativo di residenza nel territorio italiano. In tal modo, l’Italia introdurrebbe, su un piano normativo, un criterio di equità nell’accesso alla cittadinanza per tutti gli individui che sono nati e risiedono al di fuori del territorio nazionale e comunitario. Si ridurrebbe, soprattutto, l’asimmetria di trattamento nei confronti degli immigrati lungo residenti in Italia e dei loro figli nati nel nostro paese, i quali sono soggetti a condizioni di accesso alla cittadinanza molto rigide e sono esclusi dal godimento di ogni diritto politico, anche a livello locale.

Il prossimo Parlamento dovrà finalmente riformare la legge sulla cittadinanza, liberandola da una concezione eccessivamente etnica e anacronistica.

1 A. Gratteri, “Le elezioni dell’altro mondo. Gli italiani all’estero e il voto per corrispondenza”, in R. D’Alimonte e C. Fusaro (a cura di), La legislazione elettorale italiana: come migliorarla e perché, Bologna, il Mulino, 2008, p. 177.