Pensare ai CIE oggi

Di Caterina Mazza, PhD in Scienza politica e Relazioni internazionali, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino. Autrice del libro “La prigione degli stranieri – I Centri di Identificazione e di Espulsione” – Ediesse)

Scarica la presentazione de La prigione degli stranieri a cura di Giuliano Amato

Il naufragio avvenuto al largo di Lampedusa il 3 ottobre scorso ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica le varie questioni legate al fenomeno migratorio. In particolare, si è parlato del mutamento delle ragioni alle origini dei flussi migratori e della necessità di ripensare al sistema d’accoglienza italiano ed europeo. Si è parlato anche del reato di “clandestinità” e dell’opportunità di rivedere alcuni aspetti della legislazione italiana in tema di immigrazione.

Al contrario, si è parlato poco e distrattamente del ricorso alla detenzione amministrativa a fini espulsivi e dell’utilizzo di luoghi, i Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE), in cui stranieri in attesa di rimpatrio coattivo vengono privati della libertà personale per il solo fatto di essere irregolari, di non avere un permesso di soggiorno valido.

I CIE sono caratterizzati da carenze, inadeguatezze e criticità che, con il passare degli anni, sono diventate irrimediabilmente croniche. La qualità dei servizi erogati e delle attività organizzate all’interno dei Centri è scarsa, il legame tra la struttura e la realtà territoriale circostante è quasi inesistente, i luoghi stessi sono inaccessibili, gli edifici utilizzati sono totalmente inadeguati, la preparazione del personale impiegato e dei gestori è carente, le condizioni igienico-sanitarie sono insufficienti, le situazioni di confusione e promiscuità sono insostenibili e il grado di socializzazione tra i trattenuti, nonché la possibilità di comunicazione con l’esterno, sono alquanto limitati.

Le condizioni di vivibilità interne sono con il tempo drasticamente peggiorate, tanto che dei 13 CIE istituiti in Italia solo 6 sono oggi in funzione. Si pensi, per citare alcuni esempi, che il CIE di Bologna è stato chiuso perché l’ASL, in seguito a una visita ispettiva effettuata a metà gennaio 2013, ha giudicato le condizioni igienico-sanitarie della struttura inaccettabili; il CIE di Isola Capo Rizzuto è stato chiuso a metà agosto perché l’edificio è stato quasi interamente distrutto da una protesta dei trattenuti scoppiata in seguito alla morte di un giovane immigrato; il CIE di Gradisca d’Isonzo è stato chiuso a fine ottobre in quanto reso di fatto inagibile dalle rivolte innescate da una fortissima tensione che da tempo regnava nel Centro.

A fronte di una realtà così difficile da gestire e sostenere, occorre chiedersi se i CIE servano davvero a raggiungere lo scopo dichiarato per cui vengono utilizzati. Secondo il discorso pubblico affermatosi, non solo in Italia, ma anche a livello europeo nel corso degli ultimi trent’anni i Centri di trattenimento sono indispensabili per rendere ogni politica di contrasto all’immigrazione irregolare concreta ed efficace, e la detenzione amministrativa è il principale elemento che permette di salvaguardare la sicurezza dei cittadini.

E’ veramente così? I CIE sono davvero utili? Sono funzionali a rendere effettiva la politica che ha portato alla loro istituzione? Essi contribuiscono ad aumentare il numero delle espulsioni di stranieri irregolari?

Delle 8.800 persone che in media annualmente transitano nei Centri di trattenimento italiani, solo la metà viene effettivamente rimpatriata. Secondo i dati dalla Polizia di Stato e diffusi dall’associazione Medici per i Diritti Umani (MEDU), il tasso di utilità espulsiva dei CIE italiani nel 2012 è stato del 50,5%.

Tale percentuale negli anni è rimasta sostanzialmente invariata anche a dispetto dell’aumento del limite temporale massimo di trattenimento (avvenuta per legge nel 2009 – da 60 giorni a sei mesi – e nel 2011 – da sei a diciotto mesi). Le flessioni e gli incrementi registrati sono difatti marginali.

I Centri di trattenimento per gli stranieri in attesa di allontanamento coattivo contribuiscono, dunque, solo in parte a eseguire concretamente i decreti espulsivi disposti. Anche per gli altri Paesi europei, il tasso di utilità dei Centri in termini espulsivi non è molto elevato (oscilla tra il 40 e il 60%) ed è rimasto sostanzialmente costante fin dall’istituzione delle strutture.

Il limite dell’efficacia espulsiva dell’uso dei luoghi di trattenimento può essere spiegato con il fatto che la detenzione amministrativa in sé non ha alcun potere di rendere effettivo un rimpatrio quando sussistono alcune condizione che ne determinano l’ineseguibilità. Diversi studiosi (come, G. Engbersen, D. Broeders) sostengono che vi sono due condizioni fondamentali che rendono i rimpatri ineseguibili: (a) quando i migranti occultano o non dichiarano la propria identità e nazionalità; (b) quando i paesi d’origine sono riluttanti a cooperare in quanto non desiderano riammettere nel proprio territorio i loro cittadini.

Nel primo caso non vi è modo di identificare un migrante, a meno che non si effettui un’indagine di polizia utilizzando le sue impronte digitale che, tuttavia, può sortire effetti positivi solo se la persona è pregiudicata, o comunque già schedata, e se i dati raccolti sono confrontabili con quelle contenuti in database consultabili (di fatto praticamente mai!); nel secondo caso, invece, la chiusura diplomatica di un dato Paese d’origine che non intende riaccogliere un connazionale rende pressoché impossibile il rimpatrio.

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Il ricorso ai CIE, quindi, aumenta la possibilità di eseguire gli allontanamenti, solo nei casi in cui l’espulsione è di per sé eseguibile, cioè quando le procedure e le condizioni caratterizzanti ogni singolo caso permettono di attuare concretamente il rimpatrio, e solo come strumento di controllo per evitare che lo straniero interessato si renda irreperibile.

Oltre all’efficacia, occorre considerare anche la questione dell’efficienza dei Centri, quindi la relazione tra il raggiungimento degli obiettivi e i costi sostenuti.

Il sistema dei Centri nel suo complesso è molto oneroso. Si stima che, sommando le diverse voci di spesa ai costi direttamente connessi alla gestione delle strutture e all’erogazione dei servizi e delle attività interni, ogni straniero irregolare, dal fermo all’espulsione, costi allo Stato italiano circa 10 mila euro. Più in generale, anche i costi della politica che sottende l’uso del CIE sono significativi. Secondo un’interpellanza parlamentare di aprile 2011, la gestione dei flussi migratori (quindi i controlli alle frontiere, l’identificazione e il trattenimento dei “clandestini”, i respingimenti e le espulsioni) ammonta nel complesso annualmente a 460 milioni di euro.

La limitata efficacia ed efficienza del ricorso al trattenimento a fini espulsivi spinge a interrogarsi sui motivi per cui tale strumento continua ad essere usato in Italia e in tutta Europa, spinge a chiedersi se l’istituzione del sistema dei Centri non sia sostenuto da altre ragioni rispetto a quelle dichiarate pubblicamente.

A questo, si aggiungono i dubbi di legittimità costituzionale dei CIE in relazione ai principi fondanti un regime democratico, tra cui l’inviolabilità della libertà personale sancito dall’art. 13 della Costituzione italiana, nonché da numerose Convenzioni internazionali sui diritti umani (firmate anche dell’Italia).

I tanti e pesanti interrogativi che ho qui brevemente richiamato impongono un ripensamento complessivo della politica attuale, che fa della detenzione amministrativa il dispositivo principe per eseguire i rimpatri e ridurre le presenze irregolari sul territorio nazionale.

Questo ripensamento non può che condurre a un drastico ridimensionamento del ricorso alla detenzione amministrativa dei migranti irregolari e a un radicale miglioramento delle condizioni di vivibilità dei luoghi di trattenimento.

In questa prospettiva, l’incontro che si è svolto giovedì 17 ottobre 2013 in seno al Parlamento Europeo tra i rappresentanti di vari governi europei (tra i quali il Ministro italiano per l’Integrazione, Cécile Kyenge) ed esponenti della società civile per discutere di possibili alternative al ricorso della detenzione amministrativa di migranti a fini espulsivi da usarsi a livello europeo, e il forum internazionale “La detenzione dei migranti in Europa e oltre: Quali prospettive?” del 6 dicembre 2013 organizzato da Open Access Now a Parigi, indicano la strada di un cambiamento possibile.

Le informazioni sull’incontro del 17/10/2013  Il programma del forum internazionale del 6/12/2013