di Matteo Scali
Dal 19 al 21 febbraio al Teatro Baretti a Torino va in scena “Rajo, ciascuno ha la sua stella”. L’autrice, Suad Omar, racconta i temi al centro di uno spettacolo giocato totalmente al femminile, che pone di fronte allo spettatore una questione difficile e poco conosciuta.
Di che cosa parla lo spettacolo che metterete in scena nei prossimi giorni?
Lo spettacolo racconta le vicende, le sofferenze, le persecuzioni e le violenze che subiscono le donne in fuga dalla guerra e dalle discriminazioni in Somalia. Attraverso le loro parole, vengono fuori sia il contesto di partenza, segnato dal razzismo verso le minoranze e dalla guerra civile, sia il contesto di transito con le vicissitudini dell’attraversamento del Sahara, degli imprigionamenti nelle carceri libiche e delle sevizie che spesso sono taciute dai media, sia, infine, il contesto dell’approdo in Italia, dove spesso le aspettative sono disattese e le donne scontano tutto il peso dei loro traumi.
La parola Rajo – il titolo dello spettacolo – significa “speranza”. Che posto ha la speranza nella realtà migratoria che raccontate?
In Somalia, le profughe scappano perché in questa terra non c’è speranza di avere un’esistenza dignitosa. Scappano perché sentono che solo attraverso la fuga possono recuperare la speranza di una vita e di un futuro. Se non avessero questo sentimento di speranza, non riuscirebbero a superare i rischi cui vanno incontro nel tragitto. Le frustrazioni più grandi avvengono molto spesso nei paesi di arrivo, in Europa, in Italia, dove si accorgono che i loro diritti, anche se scritti su Carte internazionali come la Convenzione di Ginevra, non sono rispettati e non c’è per loro possibilità di costruirsi una nuova vita lavorando.
La chiave di lettura dello spettacolo è femminile. Quale sguardo offre allo spettatore questo punto di vista?
I drammi delle donne profughe sono spesso meno conosciuti di quelli degli uomini. La stessa condizione delle donne in Somalia, specie se appartengono a minoranze, è poco nota. Questo spettacolo vuole offrire una lettura delle persecuzioni e dell’asilo da un punto di vista femminile, con tutti i traumi che le donne somale portano con sè, a volte fin dalla nascita, senza colpa.
Il racconto narra le molte dimensioni del viaggio di un migrante. Quali sono i luoghi geografici e delle emozioni attraverso cui si snoda?
La Somalia, innanzitutto. Poi i luoghi dei tragitti, dei diversi itinerari: Eritrea, Etiopia, Sudan, Libia, dove quasi nessuna riesce a sfuggire all’internamento nelle carceri, alle violenze fisiche e alle estorsioni di denaro. La Libia è anche il luogo da dove salpano i gommoni e le barche alla volta della Sicilia e degli altri approdi del Mediterraneo. E’ l’ultimo stadio prima dell’attraversamento del mare, prima dell’Europa. Sappiamo che molte di loro non ce l’hanno fatta, che hanno perso la vita annegate nel mare. Infine, c’è l’Italia: un’Italia letta con gli occhi delle donne profughe, fatta di estraneità, esclusione, isolamento, in cui gli unici “ricoveri” sono spesso i bar di giorno e, di notte, i dormitori.