L’accoglienza dei rifugiati nelle aree extraurbane: rischi e potenzialità per l’integrazione

di Irene Ponzo

 

Convegno “Il mondo in paese. Dall’accoglienza all’inclusione dei rifugiati nei comuni rurali del Piemonte”

11 maggio 2017, Torino

 

Un contesto avverso: eredità del passato e nuovi sviluppi

L’integrazione dei rifugiati nelle aree rurali è oggi un tema di grande rilevanza, a seguito dell’affermarsi di un modello di accoglienza diffuso, ribadito dal “Piano operativo nazionale per fronteggiare il flusso straordinario di cittadini extracomunitari” (Conferenza Unificata Stato-Regioni-Autonomie locali del 10 luglio 2014). Questo modello si sta però sviluppando in un contesto contraddistinto da notevoli carenze sia a livello conoscitivo che di policy.

I limiti di ricerca vengono dal fatto che l’integrazione a livello locale, in Italia e, più in generale, nei paesi occidentali, è stata studiata soprattutto nelle città[2]. I meccanismi osservati negli agglomerati urbani, tuttavia, sono solo in parte applicabili a insediamenti di piccoli dimensioni, per cui poco si sa delle dinamiche di inclusione nelle aree rurali. Di conseguenza, le conoscenze per comprendere il fenomeno in profondità e fornire raccomandazioni di policy su questo fronte sono fragili.  Dinamiche analoghe si osservano per le politiche. La legislazione italiana sull’integrazione, di cui la legge quadro Turco-Napolitano (L. 40/1998) è ancora il riferimento essenziale (lo è invece meno sugli ingressi e lo status legale)[3], si infatti è sostanzialmente sviluppata in base a un processo bottom-up, dal basso verso l’alto, che ha visto il livello nazionale riconoscere e acquisire le sperimentazioni avviate da diverse città italiane negli anni Ottanta e Novanta[4]. Si tratta di politiche a misura di città, che rischiano di trovare scarse possibilità di applicazione nei piccoli comuni. Inoltre, le aree rurali sono state tradizionalmente viste come aree scarsamente problematiche in termini di integrazione, sebbene oltre la metà degli stranieri risieda in comuni sotto i 30.000 abitanti e l’incidenza media degli stranieri nei comuni con meno di 5.000 abitanti sia superiore all’8% (ISTAT). La migrazione nei piccoli comuni è infatti tradizionalmente una migrazione secondaria, di persone che provengono dalle città e che arrivano nei piccoli comuni possedendo almeno una conoscenza di base della lingua italiana e del contesto sociale e istituzionale, e di ricongiunti, che possono contare sul sostegno dei familiari presenti da tempo in Italia. Vi sono poi i lavoratori stagionali. La maggior parte di loro non sono migranti provenienti dall’estero ma persone che attraversano l’Italia seguendo i tempi del lavoro agricolo. Gli stagionali, però, non sono tradizionalmente considerati oggetto di politiche di integrazione a causa della loro permanenza breve sul territorio, anche se sono ormai numerose le evidenze a supporto della necessità di approntare interventi di inclusione anche per questa categoria di migranti.

Oggi si inizia finalmente a prestare attenzione alle aree rurali. La questione dell’integrazione in questi territori si pone tuttavia in maniera del tutto nuova rispetto al passato e non solo per le dimensioni dei comuni. Rispetto al passato, ci si trova ad agire in contesti ancora fortemente segnati dalla crisi economica iniziata nel 2008, per cui l’inclusione via mercato del lavoro prima ancora che attraverso le politiche, che ha finora contraddistinto il Sud Europa[5], stenta a funzionare. Inoltre, i profughi alloggiati nella strutture CAS e SPRAR costituiscono una popolazione differente dai migranti del passato a cui si concedevano permessi di soggiorno così che sopperissero ai bisogni di manodopera nostrana. In primo luogo, è una migrazione non scelta, ossia non voluta né dalla società di accoglienza, né dai migranti stessi, che avrebbero preferito restare nel loro paese o, almeno, dirigersi verso altri stati europei, dove il mercato del lavoro e le politiche di asilo appaiono più favorevoli. Non certo i presupposti migliori per un positivo percorso di integrazione. Si tratta inoltre di persone con reti di supporto scarse o assenti, proprio perché è una migrazione che non si distribuisce secondo filiere migratorie, ma in base alla norme della Convenzione di Dublino, che vuole che le persone facciano domanda di asilo nel primo paese di arrivo senza poter proseguire oltre per raggiungere parenti e conoscenti che vivono altrove. Infine, al di là delle ragioni che hanno spinto queste persone a lasciare il loro paese, la grande maggioranza di loro ha subito traumi e abusi gravi nel corso del viaggio fino in Italia: passare per il deserto e poi per la Libia significa quasi sempre essere picchiati, stuprati, imprigionati, torturati, talvolta rapiti a fini di riscatto o venduti come schiavi. Molte delle donne incinte che vediamo arrivare sulle nostre coste non sono partite per offrire un futuro migliore al bambino che hanno in grembo, ma sono state abusate durante il viaggio. Si tratta quindi di una popolazione che si porta addosso traumi enormi e che in Italia può raramente contare su un supporto psicologico appropriato.

A tutto ciò si aggiunge la riforma Del Rio (L. 56/2014) che ha indebolito le vecchie province, svuotandole di risorse e competenze, preceduta dallo smantellamento delle comunità montane. I danni a livello di politiche sociali, incluse le politiche di integrazioni, sono stati notevoli: la gran parte dei comuni rurali non possiede le risorse non solo e non tanto economiche, quanto umane e organizzative per gestire interventi complessi come sono, per loro natura, quelli che intervengono sulla società. Se le Province, certamente da riformare, potevano rappresentare un livello istituzionale intermedio tra Comuni troppo piccoli e Regioni troppo grandi, capace di cogliere le peculiarità dei diversi bacini territoriali e governarle, a oggi non abbiamo nemmeno più un livello istituzionale a cui agganciare politiche di integrazioni inter- e sovra-comunali, in grado di produrre interventi coordinati e sviluppare economie di scala. La speranza di coordinamento è affidata alla volontà dei singoli Sindaci di costituirsi in Unioni di Comuni che, quando si realizzano, seguono perciò sovente il colore politico delle Giunte anziché le somiglianze economiche e sociali dei territori.

Insomma, le basi per l’integrazione dei rifugiati nei comuni rurali sono a dir poco fragili. Nonostante ciò, queste migrazioni fatte di persone abusate e sovente sole, approdate in contesti territoriali saturi di problemi, che si aspettavano la ripresa economica e si sono invece visti arrivare migranti ugualmente o ancora più bisognosi della popolazione locale, hanno innescato dinamiche nuove e in gran parte virtuose. Dinamiche che mi hanno stupito, perché non c’era alcun elemento per sperare.

 

Le relazioni sociali e l’impatto sulle società di accoglienza: le dinamiche virtuose che non ti aspetti

Una prima osservazione riguarda il fatto che nei piccoli insediamenti i contatti sono inevitabili. In città puoi passare l’intera giornata immerso tra centinaia di persone senza scambiare una parola, nella più totale indifferenza reciproca, puoi tornare a casa e non ricordanti nessuno dei volti che hai incrociato. In paese è più difficile, perlomeno improbabile. Questo porta con sé un altro elemento: la fluidità delle relazioni. Molti migranti di vecchio insediamento raccontano che, trasferitisi nelle aree rurali, hanno ricevuto insulti che mai erano stati loro rivolti in città, ma che quelle stesse persone che li avevano insultati sono poi diventate loro amiche. Trovo questa dinamica molto interessante perché richiama in maniera molto evidente un processo che abbiamo indagato in una ricerca di FIERI condotta qualche anno fa in undici quartieri europei, Concordia Discors, espressione coniata da Orazio per descrivere il processo dinamico della Natura, per cui l’armonia nasce sovente dal contrasto e dalla dissonanza[6]. Noi l’abbiamo applicata alle società di migrazioni: il conflitto non è antinomico all’integrazione, ma ne è al contrario parte integrante; quando emerge, alle volte genera fratture insanabili, altre volte porta a conoscersi meglio e fare un passo avanti verso la costruzione di un Noi più ampio ed eterogeneo. Questo continuo passaggio dal conflitto all’armonia sociale e viceversa pare essere molto più frequente nella società di piccole dimensioni, dove l’integrazione e la separazione mostrano una minore tendenza a cristallizzarsi rispetto ai contesti urbani, con tutti i rischi e le potenzialità che ciò comporta. Oggi possiamo però leggere questo elemento in maniera prevalentemente positiva. Quando arriva la notizia che un gruppo di rifugiati verrà trasferito nel proprio paese, quasi nessuno se ne rallegra, alcuni si arrabbiano e protestano. Quello che sappiamo è che questa ostilità è meno solida di quel che generalmente si pensa e può facilmente sciogliersi in solidarietà.

Una seconda osservazione riguarda i cambiamenti innescati da questi processi nelle società locali. Una delle frasi più ricorrenti tra chi si occupa di migrazioni è che l’integrazione è un processo bi-direzionale: la migrazione è un processo sociale potente che, al di là delle volontà dei singoli, cambia sia chi si muove, sia la società di insediamento. Detto ciò, restiamo però tutti concentrati sui migranti e prestiamo poca attenzione alle società di accoglienza. A oggi non so dire se le persone arrivate negli ultimi anni siano cambiate, ma di certo sono cambiate le società rurali dove i rifugiati sono stati insediati. La loro presenza ha innescato in molte comunità di campagna e montagna processi di active-aging, di invecchiamento attivo. Si tratta infatti di società anziane, dove i giovani tendono ad andarsene e i vecchi restano con poco da fare. Questi ultimi, dipinti in genere come la parte della società più chiusa e ostile all’immigrazione, si sono in effetti spaventati quando hanno visto arrivare ragazzoni dalla pelle scura nei loro paesi. Chi sono? Cosa fanno tutto il giorno? Saranno pericolosi? In realtà, grazie alla facilità di contatto di cui si diceva prima, non ci è voluto molto a conoscersi e questi anziani hanno iniziato a darsi un gran da fare. Fanno volontariato presso gli SPRAR e i CAS,  coinvolgono i ragazzi nella Proloco (“vedesse con quale velocità montano e smontano i tavoli, loro che sono giovani”), li accompagnano presso i servizi, li invitano a pranzo la domenica “perché loro non hanno nessuno e anche i miei nipoti non è che mi vengano a trovare spesso”, alcuni organizzano persino delle gite per far conoscere il territorio, “perché altrimenti non riescono a seguire quando facciamo i nostri discorsi e parliamo dei paesi qui intorno”. Non so quanto questi processi giovino ai questi ventenni venuti da un altro continente, a cui forse servirebbe di più passare il proprio tempo con i loro coetanei italiani, studiare e lavorare e, perché no, andare a ballare e innamorarsi, perché prima di essere richiedenti asilo sono dei ragazzi. Meglio comunque che restare tutto il giorno dentro un CAS o uno SPRAR. Di certo fa bene agli anziani, che sovente raccontano quanto la loro vita sia cambiata, molto e in meglio, da quando sono arrivati in paese “i ragazzi”. Considerata l’età media della società italiana e il velocissimo invecchiamento delle aree rurali e soprattutto montane, questa è un’altra buona notizia.

Un processo meno visibile e tuttavia in atto riguarda l’acquisizione di competenze interculturali da parte di società rurali che rischiano di restare ai margini dei processi di globalizzazione. Può sembrare inutile, ma non lo è. Al contrario. Tutti hanno il diritto di conoscere e difendere la propria cultura, ma se è l’unica cosa che si conosce, il destino nel mondo contemporaneo è segnato. I bellissimi castelli arroccati sulle colline e le possenti montagne alpine non possono più proteggere nessuno da processi che investono l’intero pianeta e che relegano ai margini chi, per volontà o mancanza di scelta, consapevolmente o meno, ne resta fuori. Tutte le società, anche le più piccole, sono chiamate a diventare società complesse, dotate di competenze articolate, se vogliono sopravvivere. Ci sono molti modi per diventare complesse. L’immigrazione è uno tra i tanti, forse quello che richiede il più alto sacrificio umano da entrambi le parti, ma è comunque un modo. Uno dei pochi in un paese come l’Italia, dove si investe poco sullo sviluppo culturale.

Continuando a guardare alle dinamiche delle società locali, l’arrivo dei profughi ha innescato un altro processo virtuoso: la collaborazione tra piccoli Comuni. Come si è detto in precedenza, le ultime riforme istituzionali hanno smantellato le infrastrutture che, per quanto mal funzionati, potevano consentire ai piccoli Comuni situati sullo stesso territorio di sviluppare soluzioni condivise, coordinate ed efficaci nei settori più diversi, dallo sviluppo economico, all’ambiente, al sociale. In questa situazione di frammentazione, un incentivo potente a coordinarsi è venuto proprio dall’arrivo dei rifugiati, generalmente inviati dalle Prefetture e il cui annuncio è stato sovente fonte di proteste da parte della popolazione locale. Nell’area metropolitana di Torino, la Bassa Val di Susa è stato il primo territorio a trovare un accordo tra i Comuni e sottoscrivere un Protocollo con la Prefettura di Torino per una gestione concordata degli arrivi e dell’accoglienza (3 marzo 2016). Hanno seguito la Val Pellice, l’Alta Val di Susa, il Consorzio Servizi Sociali In Rete che raccoglie 51 Comuni nell’eporediese e il Consorzio CIS di Strambino e Caluso. Si è dunque trovata una soluzione dal basso ai problemi generati dal sistema dei CAS, che dà alle Prefetture il potere di emettere bandi per la gestione di strutture di accoglienza, accordandosi direttamente con i gestori senza consultare gli enti locali. La Prefettura di Torino ha abbandonato questa prassi da tempo, ma un accordo formalizzato tra Comuni collocati nella medesima area e la Prefettura di riferimento è una soluzione di molto più avanzata e solida di una buona abitudine. Più in generale, la necessità di gestire meglio l’afflusso di rifugiati su territori poco attrezzati ad accogliere e di fatto senza voce in capitolo nella governance dell’accoglienza – l’analisi del ruolo dell’ANCI richiederebbe un intervento a sé – ha stimolato un coordinamento tra piccoli Comuni che potrebbe essere il presupposto per collaborare anche in altre aree, diverse e distanti dall’immigrazione. Alcuni labili segnali di questo processo sono già visibili: in Val di Lanzo, grazie al supporto di Compagnia di San Paolo e alla sollecitazione dei soggetti attivi nell’integrazione dei rifugiati che segnalavano come questi ultimi avessero grosse difficoltà a raggiungere i servizi e i luoghi di lavoro in assenza di mezzi di trasporto privati, si è iniziato a lavorare sullo sviluppo di soluzioni integrate che mettano insieme trasporti pubblici, car-sharing e car-pooling, unite ad ulteriori forme innovative di utilizzo del parco mezzi attualmente sotto-utilizzato: nel volgere di breve tempo si è passati dal target straniero all’intera popolazione che, se il progetto andrà in porto, potrà giovarsi di un intervento sollecitato dalla presenza di rifugiati in Valle. Si tratta peraltro di un processo già rilevato in passato in altri settori, in cui l’innovazione è nata per rispondere a necessità generate da una delle tante “emergenze immigrazione” proclamate nel nostro paese e ha finito per stimolare riforme strutturali, a vantaggio dell’intera popolazione[7]. Emergenza è una parola che non piace a molti, perché genera panico, ma sollecita anche le menti, le istituzioni e, più in generale, le risorse del territorio.

 

Il contesto istituzionale e organizzativo: pro e contro dei piccoli comuni

Vorrei terminare con alcune osservazioni sulle istituzioni locali, tratte in parte dal volume curato da Marcello Balbo “Migrazioni e piccoli comuni”[8]. Nei piccoli comuni, generalmente i migranti entrano più facilmente in contatto con le istituzioni. Avere udienza presso un assessore o persino incontrarlo nella piazza del paese è molto più semplice che in una grande città. Inoltre, la presenza di Assessori con una pluralità di deleghe può favorire interventi integrati, capaci di agire su una molteplicità di aspetti. D’altro canto, le istituzioni locali sono meno attrezzate a trattare un processo complesso come l’integrazione dei rifugiati. Non è solo una questione di risorse economiche, ma di risorse umane e organizzative. Si pensi alla difficoltà che persino gli operatori o i funzionari dedicati incontrano nel tenersi aggiornati rispetto alle continue modifiche normative, sovente nascoste in decreti che trattano dei temi più svariati o contenute in circolari e comunicazioni ai servizi. È facile immaginare come una singola persona, con una pluralità di competenze, difficilmente possa stare al passo con l’evoluzione delle regole e delle norme sul tema. Ancora più difficile è avere una conoscenza solida del fenomeno e delle prassi virtuose per farvi fronte. E, anche qualora questa conoscenza ci fosse, sovente mancano gli operatori per implementare interventi di eccellenza o anche solo buoni. A ciò si aggiunge la mancanza di servizi in loco, come corsi di lingua e formazione, servizi sanitari e sociali, Centri per l’Impiego e Sportelli Lavoro, in un contesto contraddistinto dal drastico taglio dei trasporti pubblici, per cui la difficile mobilità verso i poli di servizi diventa un ostacolo non secondario all’integrazione. Da questo punto di vista le città offrono un’offerta molto più ricca, gestita non solo dal pubblico, ma anche da privato sociale, che ha più agio nell’innovare e trovare soluzioni nuove a nuovi problemi. Il governo ha optato per un modello di accoglienza diffuso sul territorio che mostra certamente alcuni vantaggi, lo ha accompagnato con incentivi economici per aiutare i Sindaci a mantenere il consenso dei propri cittadini di fronte a un fenomeno che suscita molti malumori, ma ha sottovalutato la necessità di attrezzare territori, che non hanno l’esperienza e le strutture necessarie, con competenze e infrastrutture organizzative che consentano di agire in maniera efficace. Si ribadisce sempre la necessità di superare l’emergenza, con cui non si può che concordare. Ma alcuni piccoli comuni sono strutturalmente in emergenza, impegnati nel risolvere pressoché da soli i molteplici e complessi problemi quotidiani che li inchiodano all’oggi ostacolando una progettazione di medio-lungo periodo.

Un’altra conseguenza del limitato numero di soggetti, pubblici e no-profit, presenti nei piccoli comuni è il peso rilevantissimo che assumono singole figure, il Sindaco in alcuni luoghi, un funzionario in altri, quella cooperativa o associazione in un altro ancora, che riescono a mobilitare intorno a loro le risorse del territorio e fare da ponte con altri contesti e organizzazioni. In assenza di queste figure, i piccoli comuni rischiano di chiudersi in un immobilismo difensivo, foriero di problemi di integrazione sul medio-lungo periodo. In una grande città come Torino, nessuno è indispensabile perché l’infrastruttura organizzativa che governa i processi di integrazione è multi-attore e composta da organizzazioni complesse, permeata da conoscenze diffuse e pratiche condivise, che sopravvivono al venir meno del singolo attore. Nei piccoli comuni i soggetti indispensabili sono molti e il loro scomparire può determinare l’interruzione di azioni virtuose e processi positivi, conferendo a questi territori e alle buone pratiche che in essi si possono sviluppare una maggiore fragilità. Per contro, un’infrastruttura istituzionale e organizzativa “leggera” e la mancanza di modalità di intervento consolidate e cristallizzate nel settore dell’integrazione può favorire l’innovazione, come emerge dalle buone pratiche raccolte in vista di questo convegno (http://www.fieri.it/wp-content/uploads/2017/04/Buone-pratiche.pdf).

Un’ultima questione di policy è il maggior peso del contesto nelle soluzioni sviluppate nei piccoli comuni. Se è vero che “one size fits all” è uno slogan di scarso successo, trasferire buona pratiche da una città all’altra è certamente meno difficile che trasferire prassi e interventi tra piccoli comuni. Una soluzione pensata per un territorio manifatturiero in declino come il Biellese mal si presta ad essere implementata nella campagne del Cuneese e dell’Alessandrino, gli interventi realizzati nelle basse valli in prossimità dei centri urbani difficilmente possono funzionare in montagna. L’integrazione dei rifugiati nei piccoli comuni è un lavoro artigianale che va supportato, più che con contenuti, con metodi e capacity building.

I piccoli comuni possono rappresentare nuovi laboratori per l’integrazione, dove elaborare ciò che tutti cercano: soluzioni che avvantaggino tutti, i rifugiati e la società di insediamento. Perché ciò avvenga è però necessario sviluppare la dimensione intercomunale e sovra-comunale delle politiche di accoglienza e integrazione, senza la quale gli sforzi e i buoni risultati ottenuti finora rischiano di perdersi nella solitudine e nella stanchezza di chi oggi si trova ad affrontare imprese al di sopra delle proprie forze.

In sintesi, le sfide che abbiamo di fronte sono molte. Meno grandi di quel che sovente si pensa, ma la loro assenza nel dibattuto pubblico le fa apparire insormontabili. Iniziare a parlarne e ragionarne insieme, come si farà in questo convegno, è un primo passo per tirare fuori qualcosa di bello da una brutta situazione.

 

 

[1] Il mio intervento si basa sugli stimoli provenienti dal lavoro fatto da FIERI con la Regione Piemonte, la Città Metropolitana di Torino, la Compagnia di San Paolo e l’associazione Dislivelli che ha portato all’organizzazione di questo convegno, così come dal confronto con i soggetti del territorio coinvolti nell’integrazione dei rifugiati, incontrati in occasione di tavoli di lavoro, convegni e progetti operativi.

[2] Pastore, F. e I. Ponzo (a cura di), Inter-group Relations and Migrant Integration in European Cities. Changing neighbourhoods,  Springer, 2016,  http://www.springer.com/us/book/9783319230955

[3] Colombo, A., Sciortino, G. ed E. Craveri, “The Bossi-Fini Law: Explicit Fanaticism, Implicit Moderation, and Poisoned Fruits.” Italian Politics, 18, 2002, 162–179; Zincone, G, “Immigrazione”, in Tuccari F. (a cura di), Il governo Berlusconi. Le parole, i fatti, i rischi, 57–71, Roma, Laterza, 2002, 57-71

[4] Zincone, G., “The Making of Policies: Immigration and Immigrants in Italy”, Journal of Ethnic and Migration Studies, 32 (3), 2006, 347–375

[5] Finotelli, C. e I. Ponzo, Integration in times of economic decline. Migrant inclusion in Southern European societies: trends and theoretical implications, Special Issue, Journal of Ethnic and Migration Studies, 2017, in corso di pubblicazione

[6] Pastore, F. e I. Ponzo (a cura di), Changing Neighbourhoods: Inter-group Relations and Migrant Integration in European Cities, Springer, 2016,  http://www.springer.com/us/book/9783319230955

[7] Ponzo, I, Il disagio abitativo degli immigrati: le risposte dell’housing sociale, Rapporti di ricerca FIERI, 2010, http://fieri.it/download.php?fileID=371&lang=ita

[8] Balbo, M, Migrazioni e piccoli comuni, Milano, Franco Angeli, 2015.

 

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