L’Etnografia ai tempi del Covid-19: appunti sulla relazione tra comunità e distanziamento sociale

di Giuseppe Grimaldi– Ricercatore FIERI
PhD Postdoctoral researcher Univeristà degli studi di Verona
Presidente Frontiera Sud Aps

Fino a poche settimane fa, prima di uscire di casa cercavo chiavi, cellulare e portafogli… ora guanti, mascherine e modulo. Al supermercato non guardo i prezzi o le date di scadenza dei prodotti ma la distanza tra me e l’altro acquirente e istintivamente blocco il respiro quando qualcun* mi passa accanto. Intanto la radio del supermercato tra un jingle e una canzone pop intervalla appelli a senso di responsabilità nazionale e richiami alla distanza di sicurezza.
Al momento sono passate tre settimane da quando l’intero territorio italiano è stato dichiarato “zona rossa” e la nostra quotidianità è in frantumi. Senza girarci attorno… bisogna considerare la concreta possibilità che la nostra quotidianità si modifichi irreversibilmente, che buona parte delle abitudini che diamo per scontate cambieranno radicalmente nel medio-lungo periodo. In questi giorni abbiamo immediatamente imparato che il Coronavirus agisce ben oltre il sistema respiratorio dei soggetti ma determina e determinerà le economie dei paesi, i loro assetti politici, le relazioni tra stati. Perché non dovrebbe determinarne comportamento sociale, le modalità di definire identità e alterità, il piano materiale e piano simbolico delle società?
Sono varie le analisi che, seguendo l’antropologo Marcel Mauss, definiscono il Coronavirus come un fatto sociale totale. Un fenomeno che orienta, determina e trasforma la società nel suo insieme. In poche settimane il coronavirus è diventato una categoria centrale attraverso cui costruiamo la “nostra visione del nostro mondo”. Se è vero che i suoi effetti sono tutti da comprendere, è d’altronde possibile azzardare un primo ragionamento sui cambiamenti antropologici che questo fenomeno sta producendo.
Il coronavirus infatti agisce sul concetto di persona nella sua duplice accezione di essere biologico (bios) e soggetto sociale (zoon): nella continua possibilità di dissoluzione della vita biologica (bios) opera una rimodulazione dello spazio politico personale (zoon) producendo un ribaltamento concettuale fondamentale: ai tempi del coronavirus isolamento e distanza diventano forma di responsabilità sociale. Questo ribaltamento delle categorie politiche del sé porta altresì a rimodulare il rapporto con l’altro, i legami di fiducia, le relazioni di vicinato: l’evitamento piuttosto che il contatto, la distanza piuttosto che la comunanza, la solitudine piuttosto che il gruppo stanno riconfigurando cosa significhi “fare comunità”.
In questi giorni, in nome della difesa del “bios”, se gli spazi e le relazioni su cui si fonda il quotidiano sono stravolti (seppur resistono pratiche solidali in vecchie e nuove modalità) sembra godere di ottima salute un altro tipo di comunità non di pratiche ma “immaginata” per dirla alla Anderson nel suo studio sui nazionalismi.
È innegabile che dall’inizio dell’emergenza la retorica nazionalista stia mondando con sempre maggior vigore in Italia: dai messaggi istituzionali, ai flash mob patriottici ai balconi, fino alla rinnovata retorica identitaria in funzione anti-tedesca e anti-europeista, l’italianità sembra stia diventando una forma di governo dell’emergenza, uno strumento biopolitico. Senza entrare nel merito della legittimità o meno di questo discorso (che si rifà a una comunità nazionale immaginata come bianca, benestante, eteronormata), va considerato che uno degli effetti di questa forma di governo dei corpi sia l’affermarsi di nuove pratiche di identificazione/alterizzazione. Pratiche che agitando l’hashtag #iorestoacasa come una clava stanno producendo nuove categorie di “escludibili” dal corpo sociale (dagli emarginati che una casa non ce l’hanno fino agli “scappati dal nord”, o addirittura ai runner). Questi “nuovi altri, si assommano a coloro che “altri” lo erano già prima del Coronavirus (la componente migrante ad esempio pur essendo una delle categorie più socialmente esposte, rimane la meno tutelata sin dall’inizio l’emergenza). Sono passate poche settimane ma è evidente che il Coronavirus avrà effetti imprevedibili sul modo in cui intendiamo il “fare comunità” e il “fare cultura”. Se tra qualche mese saremo liberi di uscire in strada e tra un anno ci sarà un vaccino o un’immunità di gregge quanto dovremo aspettare per rimettere al centro le pratiche attraverso cui abbiamo finora costruito il “noi” collettivo? Quando accetteremo il rischio di fidarci e con/per chi? Che senso assumerà la parola estraneo, chi sarà potenziale minaccia?

#iorestoacasa. Foto dalla questura di Caltanissetta. Credits: www.qds.it.

Alla luce di questi fattori, in questi giorni ho ripensato alle mie ricerche di campo, ai miei progetti futuri e alla possibilità stessa di continuare a fare osservazione partecipante.
Nella mia pur breve carriera da etnografo non saprei dire a quante persone ho stretto la mano, quante ne ho abbracciate, con quante ho condiviso un pasto, una bevuta. Non so dire quante volte mi sia ritrovato schiacciato come una sardina tra persone intente a ballare, a tifare, a pregare… Molte di queste cose nel prossimo futuro (chissà quanto lungo) risulteranno essere precluse o forse addirittura penalmente perseguibili.
Chiunque abbia fatto etnografia sa che la diffidenza è l’ostacolo più difficile da superare per entrare in una comunità. La “riduzione della distanza” tra ricercatore e partecipanti alla ricerca (una volta si diceva tra ricercatore e “nativi”) è il cardine del metodo etnografico e la chiave di accesso al sapere antropologico. Ma se la comunità stessa ad oggi si regge sulla distanza, se i mercati, le cerimonie religiose o i bar ossia luoghi, i modi e i riti della riproduzione culturale diventano una possibile minaccia alla vita stessa, non viene meno l’infrastruttura base del sapere etnografico?
A un primo sguardo è così. Oggi ben pochi si azzarderebbero a cominciare una ricerca etnografica in buona parte del mondo. Eppure a mio giudizio l’etnografia ai tempi del coronavirus è più necessaria che mai: non solo perché si aprono interessanti spazi d’analisi sulle modalità attraverso cui il virus impatta i nostri campi di ricerca, ma perché in questo periodo c’è la concreta possibilità che si ridefiniscano i meccanismi stessi della riproduzione culturale. In questi giorni vediamo persone che continuano a lavorare, a pregare, a fare l’aperitivo o la serata tra amici. Ma lo fanno online. Anziani che non hanno mai usato social network o un’app di condivisone video imparano ad utilizzarli in men che non si dica. Online si muove l’attivismo, si organizzano cene, si fanno concerti e manifestazioni pubbliche. La net-nografia, l’indagine etnografica online, in questo momento si offre come uno strumento centrale per cogliere le modalità attraverso cui comunità di pratiche più o meno allargate continuano a tenersi vive a dispetto del distanziamento. Se pensiamo a uno dei primi effetti del Coronavirus sul sapere etnografico sarà sicuramente quello di dare finalmente dare centralità all’etnografia on line. Una centralità che d’altronde già riveste in campi specifici dell’analisi sociale come lo studio delle comunità diasporiche. Inoltre, ragionevolmente, le zone stravolte dal Coronavirus nei prossimi mesi da “rosse” diventeranno “gialle”… e potremo tornare a uscire di casa mantenendo una serie di pratiche di definite di “distanziamento sociale”. A questo punto si porrà una questione fondamentale: rifare quotidianità a partire però non dalla fiducia e dalla vicinanza ma dalla diffidenza e dalla distanza.
In questa apparente contraddizione in termini, una comunità basata sulla distanza, andrà articolandosi il fare cultura nei mesi e negli anni a venire. Negli anni ’30 del secolo scorso, l’antropologo Evans Pritchard ha preso in considerazione il concetto di stregoneria tra gli Azande, popolazione nomade dell’attuale Sudan, e ha analizzato le pratiche che i soggetti mettevano in campo per scoprire o esorcizzare la possibilità che il vicino avesse operato una fattura su di lui. La società elaborava in questo modo forme culturali che permettessero di tenere insieme la comunità nonostante un ethos basato sulla diffidenza.
Anche in Occidente, come tra gli Azande, la distanza diventerà il metro attraverso cui costruiremo il nostro mondo sociale durante e dopo il Coronavirus. Si dovranno elaborare i rapporti tra reale e simbolico, le forme religiose, le pratiche condivise, mettendo al centro il timore che il proprio vicino possa essere il tuo carnefice.

Esempi di distanziamento sociale. Credits: dailymail.

Questi processi di trasformazione dei modi, dei luoghi e dei tempi del fare comunità potranno rappresentare non solo una sfida centrale per il sapere etnografico. La comprensione di queste dinamiche può costituire un contributo fondamentale per interpretare il cambiamento culturale e può rappresentare un prezioso strumento per prendere posizione politica nel prossimo futuro (ad esempio nell’immaginare la relazione tra identità ed alterità o nel combattere i tentativi di associare il pericolo del contagio ai gruppi sociali che fino ad oggi sono stati sottoposti a processi di marginalizzazione ed esclusione sociale).
È indubbio che l’epidemia CoVid-19 non sia una semplice “sospensione” dopo la quale tutto tornerà a scorrere come prima. Per la pervasività, il suo carattere “totale” e la portata degli effetti è assai probabile che le nostre modalità di pensare la società nel suo insieme nei prossimi mesi subiranno forti scossoni.
Alla faccia della modernità e della scomparsa dei rituali collettivi, stiamo probabilmente vivendo uno dei più grandi processi condivisi di cambiamento culturale degli ultimi secoli. Per dirla con Victor Turner siamo nel bel mezzo di una fase liminale dove tutto è possibile tranne tornare allo stato precedente.
E oggi la pratica etnografica è lo strumento più potente che abbiamo a disposizione per cogliere la profondità e la portata di questa trasformazione.

Riferimenti:
ANDERSON, Benedict. Comunità immaginate: origini e fortuna dei nazionalismi. Gius. Laterza & Figli Spa, 2018 [1983].
EVANS-PRITCHARD, Edward. Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande. Cortina Raffaello, 2002 [1937].
MAUSS, Marcel. Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi 2004 [1925].
TURNER, Victor. Il processo rituale. Struttura e anti-struttura, Morcelliana 1972 [1969].