Come promuovere l’integrazione delle seconde generazioni: nuove prospettive da una ricerca europea

di Michael Eve (Università del Piemonte Orientale)

Il figlio di un immigrato ha chances di vita più favorevoli se cresce a Parigi o a Berlino? Di solito si tende ad affrontare le domande di questo tipo facendo riferimento alle politiche mirate esplicitamente agli immigrati e ai loro discendenti nei vari paesi, o magari al grado di “chiusura” manifestato dalla popolazione locale. Magari verranno in mente i “modelli” di integrazione che sarebbero caratteristici dei vari paesi, più “assimilazionisti” in Francia, ad esempio, più disposti a dare qualche spazio al “multiculturalismo” nei paesi anglosassoni o in Svezia o i Paesi Bassi.

Tuttavia se si vuole capire le differenze nazionali nel rischio corso dai figli degli immigrati di trovarsi disoccupato, nelle probabilità di laurearsi o di ottenere un posto di lavoro qualificato, non sono necessariamente queste le dimensioni più rilevanti. Come dimostrano i dati di una recente e importante ricerca europea nota con l’acronimo TIES (The Integration of the European Second generation) esistono differenze assai vistose nelle opportunità a cui i figli di immigrati hanno accesso nei vari paesi europei e nei rischi a cui sono soggetti; ma queste differenze sembrano legate ad aspetti della struttura organizzativa e istituzionale del sistema scolastico e del mercato del lavoro più ancora che alle politiche “per gli immigrati”.

In questo senso, la ricerca fornisce stimoli importanti per allargare le concezioni rispetto alla natura delle misure che possano incidere sulla reale integrazione dei figli degli immigrati.

La novità di TIES

TIES segna un’innovazione in questo ambito di ricerca. Infatti mentre abbondano gli studi che mettono a confronto le politiche adottate dalle diverse nazioni d’immigrazione, sono più recenti i tentativi di misurare le differenze internazionali nei concreti destini sociali dei figli degli immigrati (la riuscita scolastica, posizione professionale, ecc.). TIES non è certo il primo tentativo di confronto internazionale degli esiti scolastici e occupazionali (cfr. tra gli altri Alba e Silberman 2009; Alba, Sloan e Sperling 2011; Crul e Vermeulen 2003; Reitz e Zhang 2011), per non parlare di un gran numero di studi che, pur essendo basati essenzialmente su dati provenienti da un solo paese, forniscono importanti spunti sull’effetto dei contesti nazionali e puntuali riferimenti a dati internazionali.

Tuttavia gran parte delle ricerche precedenti hanno attinto a basi dati raccolte per altri scopi mentre TIES ha svolto un indagine centrata unicamente sulle seconde generazioni in otto paesi europei; per questo motivo dispone di informazioni ben più ricche sulla famiglia d’origine, sull’esperienza scolastica e lavorativa, sulle opinioni e sui progetti dei giovani intervistati. L’abbondanza di queste materiali permette all’équipe di ricerca di esplorare più in dettaglio i meccanismi sociali che possano spiegare le differenze rilevate. Infatti l’ambizione del progetto non è solo quella di documentare le differenze internazionali, per esempio, nel tasso di riuscita scolastica o nel tasso di disoccupazione (a questo livello i risultati TIES tendono a confermare quelli di ricerche precedenti) ma anche di esplorare i fattori che sottostanno alle differenze trovate. Più ancora di studiosi precedenti, i ricercatori TIES vogliono affermare così una coerente integration context theory (Crul e Schneider 2010), mostrando il modo in cui il contesto “conta” nelle traiettorie concrete delle persone.

Determinanti sistemiche

Per semplificare un po’ l’enorme complessità di una comparazione internazionale in profondità i ricercatori hanno voluto focalizzare su poche origini nazionali (turchi, marocchini ed ex-iugoslavi) e in realtà gran parte delle analisi più approfondite svolte finora riguardano i figli di immigrati turchi nati in Germania, Austria, Svezia, Svizzera, Belgio e Paesi Bassi.

Dal punto della comparazione internazionale, l’immigrazione turca ha alcuni vantaggi: con la parziale eccezione della Svezia, paese in cui l’immigrazione turca ha incluso molti rifugiati, i percorsi migratori della prima generazione sono stati piuttosto simili. Infatti gran parte dei genitori degli intervistati TIES sono partiti da zone rurali o semi-rurali della Turchia nell’ambito dei programmi di reclutamento degli anni sessanta e i primi anni settanta. La grande maggioranza di questa prima generazione aveva un livello di istruzione molto modesto (ancora di più nel caso delle donne, che generalmente arrivavano per ricongiungimento familiare). Su tutta una serie di variabili sociologicamente cruciali, quindi, le famiglie d’origine dei giovani intervistati per la ricerca TIES sono molto simili nei vari paesi. Inoltre la ricerca ha campionato solo i figli nati nel paese d’immigrazione, escludendo così i noti effetti sull’istruzione e sull’occupazione del fatto di arrivare bambino o adolescente.

Nonostante questa sostanziale omogeneità nelle “condizioni di partenza” nei vari paesi di immigrazione, emergono grosse differenze in vari aspetti delle carriere dei figli. Un esempio particolarmente lampante riguarda la frequenza dell’università. Siccome la ricerca ha intervistato giovani tra l’età di 18 e 35 anni, molti erano ancora studenti. Ma mettendo insieme laureati e studenti ancora iscritti all’università, si vedono differenze notevoli. Restringendo l’attenzione solo agli intervistati che hanno genitori poco istruiti, si trova che in Francia gli universitari (intesi appunto come somma di studenti universitari e laureati) costituiscono il 37% degli intervistati, mentre in Germania solo il 5%. Fra i residenti in altri paesi della ricerca i tassi di partecipazione cadono tra questi punti estremi (ad es., Austria: 15%, Svezia: 32%).

Secondo gli autori della ricerca queste enormi disparità possano spiegarsi in gran parte facendo riferimento alla struttura dei sistemi scolastici nei vari paesi. In Germania, all’epoca in cui gli intervistati erano bambini, poche famiglie (che fossero tedesche o turche) mandavano i figli al Kindergarten, mentre in Francia la quasi totalità dei bambini di tre anni frequentavano già l’école maternelle. Naturalmente, quando sono entrati nella scuola primaria all’età di sei anni, i figli di turchi in Francia avevano competenze assai migliori nella lingua del paese di immigrazione rispetto ai figli di turchi in Germania. Inoltre, questa differenza al livello di pre-scuola si combina con la precocità dell’età in cui il sistema scolastico impone scelte cruciali (in base a valutazioni da parte degli insegnanti e scelte delle famiglie). In Germania infatti gli allievi si dividono tra i vari indirizzi (Hauptschule, Realschule e Gymnasium ossia scuole professionali, tecniche e accademiche) già all’età di 10-12 anni, lasciando ai bambini immigrati pochi anni per ricuperare l’iniziale handicap linguistico.

Un altro aspetto importante dei sistemi scolastici sembra riguardare , come suggeriscono i dati olandesi, la possibilità di cambiare in un secondo momento l’indirizzo scelto inizialmente. Anche nei Paesi Bassi il sistema prevede l’allocazione dei ragazzi in indirizzi di diverso prestigio all’età di 12 anni; ma in quel caso, i trasferimenti tra filiere sono abbastanza frequenti, mentre in Germania sono assai rari. Questo può essere uno dei motivi per cui la percentuale di universitari (studenti + laureati) tra gli intervistati dei Paesi Bassi è ben più alta rispetto alla Germania (il 27% contro il 5%). Infatti nei Paesi Bassi, molti studenti di origine straniera cambiano tipo di scuola e riescono ad avere accesso all’università, pur passando per “la strada più lunga” (the long route).

Conta anche il contributo familiare previsto dal sistema scolastico, per esempio nell’aiuto ai compiti a casa.

I paesi come la Svezia e la Francia, in cui gli studenti – grazie a qualche forma di tempo pieno o prolungato – svolgono i compiti in gran parte a scuola o in strutture semi-scolastiche, sembrano favorire i figli degli immigrati. Infatti i dati TIES mostrano che mentre in Austria e Germania la stragrande maggioranza di quei (pochi) studenti che hanno raggiunto le filiere scolastiche più prestigiose (quelle che portano all’università) provengono da famiglie che hanno fornito assistenza con i compiti a casa, in Svezia e Francia, questo aiuto da parte dei genitori è assai meno cruciale: in questi paesi infatti molti studenti hanno avuto accesso alle filiere più prestigiose anche in assenza di genitori che aiutavano con i compiti e andavano alle riunioni a scuola (Crul 2013).

Chiare implicazioni di policy

La ricerca TIES chiaramente offre indicazioni potenzialmente utili per le politiche. Sembra chiaro che la stratificazione del sistema scolastico in indirizzi di diverso prestigio possa avere effetti negativi per le carriere delle seconde generazioni, soprattutto se è difficile cambiare indirizzo. Come sembra probabile che la diffusione di un sistema semi-universale di pre-scuole o una rete capillare dopo-scuola possa aiutare.

Ma i risultati della ricerca sono stimolanti anche perché suggeriscono un più generale ri-orientamento del modo di pensare le politiche pertinenti. Infatti è importante il riconoscimento che molti aspetti dell’organizzazione del sistema scolastico – come anche del mercato del lavoro, del mercato immobiliare e così via – possano avere effetti differenziali sulle famiglie native e immigrate. Gli esempi appena accennati mostrano l’importanza dei tempi previsti dal sistema scolastico: i tempi di entrata nel sistema, i tempi di scelte cruciali o di test che determinano l’indirizzo perseguito, i tempi di recupero. Ma ci sono anche molti altri aspetti.

I sistemi scolastici naturalmente cambiano nel tempo: oggi in Germania la frequentazione della scuola materna è assai più diffusa rispetto alla situazione conosciuta dagli intervistati TIES. Inoltre non tutti i paesi hanno sistemi scolastici che interpongono nei percorsi scolastici ostacoli del tipo di quelli appena nominati.

Ma la ricerca fornisce indicazioni utili anche a questi paesi, focalizzando l’attenzione su aspetti del sistema scolastico che generalmente non entrano nel dibattito su “l’accoglienza degli stranieri”. I sistemi scolastici dei vari paesi (l’età in cui si comincia la scuola, la differenziazione tra indirizzi, ecc.) naturalmente non sono stati inventati pensando agli immigrati (né per includerli, né per escluderli): in molti casi, si tratta di organizzazioni e di concetti ereditati da epoche ben precedenti all’immigrazione di massa. Eppure, come sembra emergere dai risultati TIES, questi assetti organizzativi, pensati per altri scopi, pesano parecchio sulle carriere delle seconde generazioni.

Per capire questo spostamento di prospettiva si potrebbe fare un’analogia con un altro campo, quello delle diseguaglianze di genere. Da tempo gli studi in questo campo hanno sottolineato che non sono solo pregiudizi e discriminazioni a ostacolare le carriere delle donne e la stessa partecipazione al mercato del lavoro: contano anche fattori – fattori sistemici o contestuali, anche in questo caso – come i tempi del lavoro, i nidi, i trasporti e così via. Un principio piuttosto simile sembra appropriato anche quando si pensa alle disuguaglianze legate all’immigrazione. Del resto anche una ricerca sulle carriere scolastiche e lavorative dei figli degli immigrati in Piemonte, intitolata “Secondgen”, arriva a conclusioni simili (per qualche informazione sintetica, Eve 2013).

E dopo la scuola?

Naturalmente l’importanza degli assetti organizzativi e istituzionali dei diversi paesi non riguarda solo la scuola. Prendiamo l’esempio dell’inserimento nel mercato del lavoro. Confrontato con una tabella che mostra grosse differenze tra il tasso di disoccupazione dei figli degli immigrati in diverse nazioni, il lettore potrebbe immaginare che si tratti di differenze nella capacità dei diversi paesi a combattere la discriminazione. Ma questo non è ciò che emerge dai dati TIES. Le varie nazioni sono abbastanza differenti tra loro nella legislazione anti-discriminazione che hanno introdotto. Ma se si esamina il tasso di disoccupazione dei giovani turchi in Svizzera, Germania, Austria, Francia, Belgio, Paesi Bassi e Svezia, non emerge nessun rapporto con l’indice delle politiche d’integrazione MIPEX: i paesi in cui la legislazione contro la discriminazione è più completa non sono quelli in cui lo svantaggio delle seconde generazioni nel mercato del lavoro è minore (Lessard-Phillips, Fibbi e Wanner 2012). Non emerge neanche un rapporto con le esperienze personali di discriminazione dichiarate dai giovani durante l’intervista TIES (ibidem).

Risultati del genere, ovviamente, non diminuiscono l’importanza della legislazione anti-discriminazione e nemmeno della lotta più generale contro il razzismo e i pregiudizi (per valutare gli effetti della legislazione sulle opportunità aperte agli individui, più che confronti internazionali ci vorrebbero studi all’interno di un singolo paese, per esempio, prima e dopo l’introduzione di nuova legislazione). Ma ricordano che le chances reali di vita in un’arena cruciale come l’accesso al lavoro sono condizionate in primo luogo da altri fattori più generali. Conta, naturalmente, il livello generale della disoccupazione e della disoccupazione giovanile di un determinato paese: in molti casi i tassi di disoccupazione dei figli degli immigrati sembrano “iper-ciclici”, così quando aumenta il tasso di disoccupazione generale, aumenta più fortemente tra i giovani di origine straniera, mentre gli stessi possono ricuperare rapidamente in tempi di ripresa.

Conta anche la struttura istituzionale del mercato del lavoro: così, per esempio, se il mercato del lavoro svedese offre un numero molto elevato di posti di lavoro nel settore del welfare, questo senza dubbio spiega perché il tasso di occupazione delle intervistate TIES sia particolarmente elevato in quel paese: come le figlie di svedesi, le figlie degli stranieri traggono benefici dall’esistenza di un settore che offre molti posti del lavoro “femminili”. Contano anche i legami tra scuola e aziende che possono esistere istituzionalmente in un determinato paese.

Così, nonostante alcuni problemi degli ultimi anni, il sistema tedesco di legami tra scuole e aziende continua ad essere efficace: la maggior parte degli studenti degli istituti professionali ancora oggi riesce ad ottenere un vero e proprio apprendistato che quasi garantisce l’inserimento stabile in un mestiere. Anche se gli studenti di origine immigrata incontrano difficoltà maggiori rispetto ai compagni di banco tedeschi, i due terzi ottengono un apprendistato. Questo assetto istituzionale (non inventato, certamente, per le seconde generazioni: il sistema affonda le sue radici nell’Ottocento) protegge i giovani di origine straniera in Germania dagli alti tassi di disoccupazione che affliggono invece questa categoria in Francia (soprattutto chi ha bassi titoli di studio, ma anche i diplomati), come si vede nei dati TIES come in quelli di altre ricerche.

Punti di forza (e qualche perplessità)

Il lettore interessato ai risultati del progetto TIES può trovare una grande abbondanza di materiali sul sito web del progetto  che contiene molti documenti (la maggior parte in inglese) scaricabili nella sezione “Publications”. Tra i molti scritti interessanti si può segnalare l’efficace presentazione di alcuni dei risultati più chiari che emergono dalla ricerca nell’articolo di Maurice Crul: Snakes and Ladders in Educational Systems: access to higher education for second generation Turks in Europe. Il sito contiene anche il volume The European Second Generation Compared, che contiene dati più dettagliati su molti aspetti della ricerca non affrontati negli articoli più sintetici, che tendono a focalizzare su pochi aspetti delle carriere scolastiche delle seconde generazioni turche, tralasciando altre questioni (e anche i materiali sui giovani di origine marocchina e iugoslava).

Tra il materiale scaricabile dal sito si trovano non solo articoli e volumi orientati a un pubblico accademico ma anche interessanti ed efficaci policy documents.

Va menzionato infine il volume divulgativo Super-diversity (scaricabile in inglese e francese oltre che nell’originale olandese), che entra più direttamente nel dibattito pubblico affrontando varie paure espresse da intellettuali e leader politici soprattutto nei Paesi Bassi e in Germania, ma non solo. Dopo aver notato il passaggio di Amsterdam nelle file delle città in cui le minoranze costituiscono complessivamente una maggioranza numerica della popolazione (diventando una majority-minority city nella stessa maniera di New York o Los Angeles), gli autori di questo testo, Maurice Crul, Jens Schneider e Frans Lelie, immaginano due scenari contrapposti per le città europee del futuro.

Nel primo ci sarebbe un irrigidimento delle barriere etniche e una tendenza da parte di tutti di “ritirarsi” all’interno del “proprio” gruppo, “arroccandosi” sui valori “tradizionali” del gruppo appunto e magari ritirandosi fisicamente in ghetti da ricchi o da poveri. Nel secondo scenario invece si prospetta una generalizzata apertura promossa dalla mobilità sociale di una parte importante delle seconde generazioni e dallo sviluppo di nuovi valori più compatibili con la società della super-diversity: nuovi modi di vivere l’Islam, forse nella direzione di una religiosità più privata, nuovi atteggiamenti da parte degli “autoctoni”, e così via. Personalmente, trovo le contrapposizioni di questo tipo poco convincenti: da una parte non vedo i segni empirici di una vera e propria segregazione etnica in procinto di svilupparsi, dall’altra sospetto che le alternative siano più complesse della visione di armonia multiculturale abbozzata dagli autori nel loro abbozzo.

Non tutti troveranno convincente nemmeno la prospettiva di “emancipazione” che gli autori offrono alle figlie degli immigrati di famiglie mussulmane, che nello scenario positivo, adirerebbero, sembra, a una specie di attutita versione islamica dell’ideale olandese (o addirittura più specificamente ‘amsterdamese’) della donna liberata. D’altra parte, come ammettono gli autori stessi, il libro è stato fortemente influenzato dal dibattito olandese e dalle specifiche preoccupazioni che lo animano.

La centralità della scuola

Tuttavia nonostante questi punti di disaccordo, trovo che anche questo testo mostri i grandi punti di forza della ricerca TIES che ne costituisce la base empirica. E’ molto ben spiegata, per esempio, la centralità della scuola nei processi di integrazione. Come sostengono gli autori, la riuscita scolastica è importante non solo in sé e per l’accesso al mercato del lavoro, ma anche per una serie di altre conseguenze che hanno a che fare in qualche modo con “l’integrazione”. Così si mostra come il livello di istruzione degli intervistati TIES sia correlato con una serie di comportamenti e atteggiamenti rispetto all’identificazione con la città e con la nazione in cui si abita, rispetto ai ruoli di genere preferiti e molti altri aspetti della vita. Se prendiamo le figlie degli immigrati turchi (di cui il dibattito olandese e tedesco si preoccupa tanto!), chi ha un’istruzione lunga tende a lavorare fuori casa, tende a sposarsi tardi e, proprio a causa del fatto di essere più adulta al momento del matrimonio (e magari di lavorare), tende a preferire rapporti più ugualitari con il marito e di dichiarare valori maggiormente “emancipati”.

Questo effetto dell’istruzione su una vasta gamma di atteggiamenti e comportamenti non è altro che una generale regolarità sociologica (e infatti anche i dati TIES per i giovani autoctoni delle varie nazioni campionate mostrano divisioni simili nei valori e nei comportamenti tra giovani istruiti e non-istruiti). Ma vale la pena sottolineare ciò che potrebbe sembrare banale in un contesto di dibattito in cui si focalizza sulla nazionalità (o sulle “origini”) ad esclusione di altri fattori spesso più determinanti. Va ricordato infatti quanto sia davvero profondamente differente “l’integrazione” di un figlio di immigrati che ha un alto livello di istruzione rispetto a quella di un suo co- etnico con un livello di istruzione basso. Dopotutto l’integrazione è una questione della possibilità di formare una serie di rapporti e di avvalersi di opportunità di vario tipo.

Senza esagerare l’effetto necessariamente “emancipatorio” dell’istruzione (le combinazioni possibili di valori e di comportamenti sono molte e sarebbe azzardato vedere l’istruzione terziaria come toccasana per sconfiggere i fondamentalismi!) è importante riconoscere che l’allungamento degli anni d’istruzione cambia fondamentalmente i tempi degli eventi della vita, come anche la capacità di partecipare al mercato del lavoro e gli ambienti sociali frequentati. Queste sono inevitabilmente dimensioni fondamentali del concreto percorso di vita che una persona seguirà.

Crul, Schneider e Lelie ricordano anche che la riuscita scolastica della seconda generazione ha conseguenze importanti per la terza generazione, e quindi implicazioni per il rischio della comparsa di uno svantaggio assai durevole (lo spettro di un sotto-strato etnico permanentemente svantaggiato). Immaginiamo la contra-figura appena abbozzata della donna ben istruita di seconda generazione: una sua sorella che abbandona la scuola, non trova lavoro e si sposa giovane con un uomo turco cresciuto nello stesso quartiere e anche egli con un titolo di studio di poco valore. E’ chiaro che una volta diventati genitori, una madre e un padre del genere difficilmente avranno le risorse per promuovere la riuscita scolastica dei figli.

La loro esperienza personale non ispirerà fiducia nell’istituzione scolastica né aiuterà nei contatti con gli insegnanti che si potranno rendere necessari per affrontare eventuali difficoltà scolastiche dei figli. Il loro atteggiamento verso la scuola non sarà caratterizzato da quell’ottimismo rispetto alle opportunità che essa offre che caratterizza invece molti genitori della prima generazione; essi ricorderanno piuttosto la propria esperienza di fallimento scolastico. Anche senza immaginare scenari catastrofici di isolamento etnico, si può immaginare in questo modo la perpetuazione dello svantaggio attraverso le generazioni.

 

Riferimenti bibliografici

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M. Crul, Snakes and Ladders in Educational Systems: access to higher education for second generation Turks in Europe, “Journal of Ethnic and Migration Studies, 2013.

M. Crul, J. Schneider, Comparative integration context theory: participation and belonging in new diverse European cities, “Ethnic and Racial Studies”, 7, 2010.

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