FIERI intervista Cécile Thoreau, coordinatrice di Settling In: OECD Indicators of Immigrant Integration 2012, appena pubblicato dalla Organizzazione per la Cooperazione allo Sviluppo Economico di Parigi.
Questa pubblicazione presenta le prime comparazioni internazionali tra i paesi OCSE per quanto riguarda gli esiti degli immigrati (traduciamo così l’espressione “outcomes for immigrants”) e dei loro figli nelle principali aree di integrazione sociale ed economica. Questo lavoro è il primo di una serie che mira a fornire un termine di confronto iniziale, nella prospettiva di un monitoraggio costante degli indicatori comparabili di integrazione tra i paesi OCSE. Un primo capitolo descrittivo confronta le caratteristiche della popolazione nata all”estero e dei figli degli immigrati nei paesi OCSE.
Nel rapporto vengono presentati i risultati della ricerca, suddivisi in otto tematiche fondamentali:
- la distribuzione del reddito dei nuclei familiari e l”incidenza della povertà;
- la condizione abitativa e il costo delle abitazioni;
- lo stato di salute e l’accesso all’assistenza sanitaria;
- l’educazione dei figli degli immigrati nati nel paese di insediamento;
- la condizione lavorativa;
- le caratteristiche del posto di lavoro;
- l’impegno civico e
- la discriminazione.
La comparazione del livello di integrazione degli immigrati in diversi paesi implica la risoluzione di alcune sfide concettuali e metodologiche molto serie: quali sono state le principali questioni e come le avete affrontate?
Senza dubbio, le comparazioni a livello internazionale rappresentano una faccenda spinosa e c’è il rischio di false interpretazioni. Il nostro obiettivo è quello di dotare i paesi di alcuni riferimenti chiari (benchmarks), così che possano confrontare i propri risultati con quelli degli altri paesi OCSE, e svelare aspetti dell’integrazione che i soli dati nazionali non sono in grado di mettere in luce. Possono inoltre mostrare tendenze comuni tra tutti i paesi e/o aiutare a mettere a fuoco temi rilevanti. Tuttavia, come giustamente è stato fatto notare, confrontare gli esiti dell’immigrazione nei paesi OCSE è una sfida, dal momento che essi hanno caratteristiche profondamente diverse. Non solo occorre tenere in considerazione la diversità delle loro caratteristiche ma è anche importante scegliere un gruppo di riferimento appropriato, che viva nello stesso paese per confrontarne gli esiti.
Questo è il primo punto da sottolineare quando si interpretano questi indicatori: le differenze negli esiti con un gruppo di riferimento che vive nello stesso paese sono in genere più illuminanti rispetto ai soli esiti dei gruppi immigrati.
Ciò detto, le comparazioni degli esiti degli immigrati tra diversi paesi possono essere effettuate tra gruppi di migranti relativamente omogenei (tenendo in considerazione, per quanto possibile, la durata della permanenza degli immigrati, lo status all’ingresso, le origini geografiche). Gli immigrati dovrebbero poi essere paragonati con gli autoctoni con caratteristiche simili . Ciò che abbiamo fatto in questa pubblicazione e questo dataset è stato “correggere” i risultati degli immigrati ipotizzando come sarebbero stati se le loro caratteristiche socio-demografiche medie fossero state identiche a quelle della popolazione di riferimento.
Ora, questo genere di aggiustamento può essere migliorato. In particolare, l’accesso a informazioni internazionalmente comparabili sulla padronanza della lingua, l’età al momento dell’arrivo e l’esperienza nel paese di origine (occupazione, condizione sanitarie e di vita), contribuirebbero a raggiungere questo scopo.
Un altro aspetto importante della comparazione è l’integrazione nel tempo all’interno dei singoli paesi, sebbene anche questo elemento ponga delle sfide. Osserviamo la tendenza (confrontando gli esiti del 2000 con quelli del 2010), ma anche la convergenza (quanto la durata della residenza nel paese ospite incida sugli esiti e differenze con la popolazione di riferimento). Dal momento che non siamo in possesso di dati longitudinali internazionalmente comparabili, abbiamo scelto di fare un’analisi di “pseudo-coorte”, basata sui dati cross-sectional dettagliati per durata del soggiorno. Cioè, invece di seguire direttamente i percorsi degli stessi migranti nel tempo, vengono monitorati in anni successivi gli esiti di diversi campioni di immigrati che sono arrivati in un determinato anno e che sono selezionati in modo casuale.
L’indicatore la cui comparazione risulta probabilmente meno complessa tra diversi paesi è la situazione dei figli di immigrati nati e educati nei paesi di arrivo. Le competenze degli immigrati non sempre possono essere immediatamente utilizzate nel paese in cui essi si sono trasferiti (di destinazione), ma lo stesso non vale per i loro figli, i cui esiti non dovrebbero differire da quelli dei figli di nativi con un background simile.
È possibile individuare alcune tendenze comuni per tutti o la maggior parte dei paesi OCSE? Quali sono?
Non può essere identificato alcun singolo modello e ciascun paese ha i suoi punti di forza e di debolezza. Tuttavia, sembra che alcune sfide comuni siano condivise dalla maggior parte se non da tutti i paesi.
I tassi di povertà sono sistematicamente più elevati tra i nuclei famigliari di immigrati. Inoltre, le famiglie immigrate sono esposte a maggiori rischi perchè si trovano a vivere in condizioni abitative inadeguate. Questo pattern non è determinato esclusivamente dalla distribuzione del reddito né dalla concentrazione in aree fortemente urbanizzate.
L”accesso all’edilizia residenziale pubblica e alle eventuali sovvenzioni pubbliche per l’alloggio, così come l’insufficienza di informazioni sul mercato degli affitti, l”esistenza di atteggiamenti discriminatori da parte dei proprietari nei confronti delle famiglie di immigrati nonché le disuguaglianze nell’accesso al credito, sono tra i fattori che entrano probabilmente in gioco.
Possedere un alto livello di educazione non offre, di per sé, nessuna garanzia ai fini di una buona integrazione degli immigrati stessi (grafico 1), ma è fortemente associato a buoni risultati per i loro figli. L”accesso al mercato del lavoro da parte delle donne immigrate è un”altra sfida condivisa dalla maggior parte dei paesi OCSE, ad eccezione dei paesi dell”Europa meridionale dove anche il tasso di attività delle donne native è basso se confrontato con le medie OCSE.
In tutti i paesi si rileva che i cittadini immigrati, anche dopo alcuni anni di residenza nel nuovo paese, hanno un tasso effettivo di esercizio del diritto di voto inferiore rispetto agli autoctoni. Inoltre, non sembra che nei paesi in cui le procedure per l’accesso alla cittadinanza sono più selettive, la propensione dei migranti infine naturalizzati al voto sia più elevata.
Nella maggior parte dei paesi europei dell”OCSE i risultati negativi conseguiti dai figli nativi di immigrati sono solo in parte associati al basso livello d”istruzione raggiunto (grafico 2). Inoltre, essi sono sovrarappresentati tra i giovani con basso livello di istruzione che non lavorano né sono impegnati in percorsi di studio o di formazione (“Neither in education employment or training”, spesso indicati con l’acronimo NEET).
E l’Italia? In che cosa si discosta dalle tendenze generali?
L’invecchiamento della popolazione autoctona e l”aumento del livello di istruzione dei giovani adulti italiani sono alcuni dei fattori che spiegano il boom della domanda di lavoratori poco qualificati, in particolare dei lavoratori domestici. Non occorre neppure che io evidenzi il massiccio afflusso di lavoratori stranieri osservabile a partire dal 2000. Nonostante la crisi del 2008 e il forte aumento della disoccupazione, in Italia, i lavoratori stranieri con un basso livello di istruzione hanno ancora maggiori probabilità di essere impiegati rispetto agli omologhi nativi. Nella maggior parte dei Paesi OCSE si osserva invece la tendenza inversa (grafico 1).
L’alta incidenza di posti di lavoro poco qualificati e la differenza nelle dimensioni del nucleo familiare rispetto alle famiglie autoctone può in parte spiegare perché le famiglie immigrate siano più a rischio di vivere in povertà. Le famiglie con bambini e un basso potenziale di guadagno sono particolarmente esposte al rischio di vivere in condizioni di povertà. Mentre il tasso di povertà infantile per le famiglie di origine immigrata è più alto in Belgio, Stati Uniti e Spagna, il più alto differenziale rispetto alle famiglie autoctone si trova in Italia e in Francia, dove i bambini delle famiglie immigrate hanno una probabilità cinque volte maggiore di vivere in povertà rispetto ai bambini delle famiglie autoctone (grafico 3).
Infine, l”Italia si colloca tra i paesi dell”OCSE che hanno il più basso tasso di naturalizzazione. Anche a causa del cospicuo afflusso di stranieri nel corso del decennio, la percentuale di cittadini italiani tra la popolazione immigrata è nettamente diminuita dal 47% del 2000 al 28% del 2010.
Quali sono le principali implicazioni di questa relazione in termini di politiche? In particolare, quali sono le possibili raccomandazioni politiche da dare ai governi (e anche ad altri attori, quali le associazioni dei datori di lavoro, i sindacati, le organizzazioni internazionali, la società civile, ecc.) in una fase di forte riduzione della spesa pubblica?
La ricerca sottolinea come la composizione della passata migrazione in termini di categoria (lavoro, famiglia, motivi umanitari) e competenze, possa spiegare gran parte delle differenze degli esiti tra stranieri e nativi nei vari paesi. Mentre un alto livello di istruzione facilita l”integrazione nel mercato del lavoro, i migranti altamente istruiti hanno però sistematicamente meno probabilità di accedere al mercato del lavoro. Quindi questo suggerirebbe la necessità di politiche volte a favorire un uso corretto delle competenze dei migranti, un rafforzamento della padronanza della lingua parlata nel paese in cui vivono e la promozione del riconoscimento e dell’equivalenza del diploma straniero.
Nonostante l”Italia rappresenti un”eccezione, con risultati relativamente favorevoli in termini di integrazione di lavoratori con bassi livelli di istruzione, la sostenibilità dei posti di lavoro per migranti poco qualificati potrebbe richiedere una specifica attenzione sul lungo termine. L”integrazione dei membri della famiglia, compresi i figli di immigrati, richiede anche una particolare attenzione da parte di chi elabora le politiche. Il tasso relativamente elevato di povertà dei bambini immigrati pone la questione se gli attuali programmi contro la povertà non possano essere progettati in modo più inclusivo.
Come si può notare in tutti i paesi OCSE, l’integrazione dei figli dei migranti con un’educazione di basso livello rappresenta una delle sfide più importanti. Devono essere messe in atto politiche che contribuiscano a mitigare gli scarsi risultati scolastici dei figli di immigrati. Un intervento precoce, anche in età prescolare, sembra essere fondamentale a questo proposito. Di conseguenza, le politiche di ricongiungimento familiare che ritardano l”arrivo dei bambini hanno alcune conseguenze pesanti per l”integrazione dei figli degli immigrati sia nella scuola che nel mercato del lavoro. Se i figli arrivano da adolescenti, è spesso per loro troppo tardi per imparare bene la lingua e integrarsi all’interno della scuola (grafico 4).
Infine, i figli di immigrati tendono ad essere sottorappresentati nel settore pubblico. Questo è un peccato, poiché il settore pubblico può fungere da motore per l”integrazione, agendo come un modello di comportamento per il settore privato.