Di Ferruccio Pastore, pubblicato il 03 Febbraio 2011 su Affarinternazionali
Su cosa pensino e chiedano le opinioni pubbliche in tema di immigrazione abbondano le disquisizioni e le congetture. Proliferano anche le rilevazioni di opinione, ma si tratta perlopiù di sondaggi spot e una tantum, condotti in un solo paese e non di rado “agganciati” a specifici fatti di cronaca. Senza profondità diacronica né copertura internazionale, questi sondaggi non producono vera conoscenza. Viziati come tendono ad essere dalle specificità del contesto, nonché spesso dal taglio tendenzioso dei questionari. Le opinioni pubbliche in materia di immigrazione, insomma, sono molto citate, interpretate e “usate”, ma poco conosciute.
Per queste ragioni, il Transatlantic Trends Immigration (TTI) è uno strumento prezioso. TTI è infatti un sondaggio approfondito (oltre settanta domande), condotto con metodo e contenuti omogenei in otto importanti paesi occidentali di immigrazione (sei europei: Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Spagna, Regno Unito; più Canada e Stati Uniti) e ripetuto nel tempo. Quelli che si presentano oggi in simultanea [Scarica il programma] in alcune capitali europee e in Nord America sono i risultati della terza wave (di cui linkiamo il Key Finding Report [Download Pdf] e i Topline Data [Download Pdf], realizzata tra l’estate e l’autunno 2010, che segue alle tornate 2008 e 2009 (su cui, si veda “Immigrazione: cosa vogliono davvero le opinioni pubbliche“).
Un clima ancora pesante
Se qualcuno si aspettava che la crisi economica potesse automaticamente indurre una crescita generalizzata dei livelli di attenzione e magari di xenofobia, rimarrà – almeno in parte – deluso (o rassicurato). Per un verso, infatti, si osserva che, con l’esplodere di preoccupazioni più pressanti (la disoccupazione, in primis), il tema dell’immigrazione slitta in secondo piano: la percentuale degli europei che considerano questa la issue più importante cala leggermente (dal 11% al 10%), ma crolla addirittura in Italia (10% nel 2010, a fronte del 18% di un anno prima).
Tuttavia, almeno per quanto riguarda gli italiani, questa minor salienza attribuita al tema non implica indifferenza: il 35% dei nostri connazionali ammette di discutere “spesso” di immigrazione in famiglia o con gli amici (a fronte di una media dei paesi europei oggetto del TTI: 19%); mentre addirittura l’80% del campione italiano sostiene di seguire “da vicino” o “molto da vicino” le notizie sul tema (media UE: 69%).
Il fatto che l’immigrazione non sia in cima alla lista delle priorità non significa, però, che il clima sia diventato più favorevole. Gli orientamenti di opinione mostrano una certa continuità, ma su livelli elevati di preoccupazione, con strati ampi di netta ostilità. Coloro che in Europa considerano l’immigrazione “più un problema che un’opportunità” sono quasi la metà (49%; 45% in Italia), contro il 39% (31% da noi) che è convinto del contrario. E se invece della valenza astratta del fenomeno, si interrogano i cittadini sulle sue dimensioni concrete, ci si imbatte in un corposo 40% di europei che pensa che gli immigrati siano “troppi”; in Italia, la percentuale dei “saturi” sale addirittura al 53% (livello superato solo dal 59% dei britannici).
La crisi non sembra dunque avere innescato una spirale xenofoba, ma l’opinione pubblica resta indubbiamente inquieta e mobile. E l’immigrazione rimane un tema elettoralmente decisivo, come ci ricordano i risultati delle recenti tornate elettorali in Olanda (giugno 2010) e Svezia (settembre 2010). In entrambi i paesi, una stereotipata ma efficace retorica anti-islamica ha proiettato il Partito della Libertà (PVV) di Geert Wilders e i Democratici Svedesi di Jimmie Åkesson in confortevoli e altamente visibili ruoli di opposizione, che consentono loro di influenzare, senza dirette assunzioni di responsabilità, l’azione dei due neonati governi di minoranza. Una collocazione analoga assicura, da quasi un decennio, una sicura rendita politica al Partito del Popolo di Pia Kjaersgaard in Danimarca.
Offerta politica e preferenze popolari
In un clima di opinione così vigile e tendenzialmente ostile, governare l’immigrazione non è evidentemente un’impresa facile. Stando a ciò che pensano gli intervistati TTI, nessun governo europeo ci riesce in maniera soddisfacente. Stando al parere dei cittadini (tab. 1), i risultati peggiori si registrano nel Regno Unito (dove la sconfessione della linea di apertura del New Labour da parte di Cameron non dà ancora frutti in termini di consenso), nei Paesi Bassi (dove le incessanti campagne anti-islamiche lasciano evidentemente il segno nella percezione collettiva dell’integrazione) e in Italia, dove la linea di indiscriminato rigore proclamata con i vari pacchetti-sicurezza sembrerebbe non pagare.
Tab. 1: percentuale degli intervistati che pensa che il proprio governo nazionale stia facendo un cattivo/pessimo lavoro in materia di gestione dell’immigrazione (2009-2010) e integrazione degli immigrati (solo 2010).
Il caso italiano, peraltro, spicca anche da altri punti di vista. Siamo il paese in cui la (falsa) percezione di una presenza immigrata prevalentemente irregolare è più ampia e acuta (65% contro una media europea del 34%). Siamo anche la società meno capace di discernere l’immigrazione regolare da quella irregolare (o illegale, secondo la terminologia usata da TTI), con un 30% (media europea: 18%) che crede (anche qui, in contrasto con ciò che dicono le statistiche) che gli immigrati legali accrescano i livelli di criminalità.
Nello stesso tempo, il campione italiano appare come uno dei più convinti dei benefici materiali che l’immigrazione ci porta: il 76% (media UE: 68%) ritiene che gli immigrati compensino utilmente carenze di lavoratori nazionali; inoltre, il livello di concorrenza percepita tra nativi e immigrati sul mercato del lavoro è tra i più bassi (29% contro una media del 35% nei sei paesi del TTI).
Insomma, agli italiani, in media, gli immigrati non piacciono (per quanto sia un indicatore imperfetto, solo l’8% degli intervistati dichiara di avere almeno un amico immigrato: di gran lunga la percentuale più bassa, in un’Europa dove la media è il 14%), ma sembriamo consapevoli di non poterne fare a meno.
Questa nostra consapevolezza pragmatica, però, si attenua, quando guardiamo al lungo periodo: alla domanda se l’immigrazione possa contribuire a colmare i vuoti di forza lavoro che deriveranno in misura crescente dall’invecchiamento della popolazione, sono più gli italiani che rispondono di no che di sì (49 contro 46%), mentre nella media europea il rapporto è invertito (51% sì, 44% no).
Torniamo, per concludere, ai dilemmi della politica. Le classi dirigenti europee sono consapevoli di muoversi su un crinale sottile: aprire le porte è politicamente rischioso, ma chiuderle economicamente impossibile (è significativo che, anche in piena crisi, quasi tutti i governi europei abbiano mantenuto o persino creato ex novo specifici canali di ingresso, almeno per personale con qualifiche medie e alte; per una panoramica delle risposte politiche alla crisi, rinvio a: “Managing migration through the crisis“).
Nel tentativo di escogitare vie d’uscita da questa impasse, il mainstream della politica europea –con frequenti consonanze bipartisan – fa da alcuni anni crescente ricorso ad alcune formule: la politica migratoria dev”essere “più selettiva”; bisogna “scegliere gli immigrati migliori”; i “sistemi a punti” sono la soluzione. Un altro mantra ricorrente fa leva sulla necessità di favorire la “immigrazione circolare”, che garantirebbe esiti win-win-win, assicurando al paese di destinazione il lavoro che serve nell’immediato, ma senza oneri sociali permanenti; non privando il migrante della prospettiva del ritorno e il paese di origine di risorse umane potenzialmente utili allo sviluppo futuro.
Senza entrare nel merito di queste ottimistiche ricette di policy, è interessante notare che l’opinione pubblica europea non appare convinta. Il 62% degli europei (in questo campo, gli italiani rientrano perfettamente nella media) pensa che ai nuovi arrivati si debba dare la opportunità di rimanere per sempre, mentre solo il 26% (21% degli italiani) ritiene che l’ammissione debba essere temporanea, con successivo obbligo di ritorno.
Quanto ai modelli di politica migratoria e alla prospettiva di una conversione generalizzata ai “sistemi a punti” (storicamente adottati da paesi nati dall’immigrazione, come l’Australia e il Canada, e oggi importati sperimentalmente in Danimarca, Olanda e Regno Unito: per maggiori dettagli, rinviamo a “Quale immigrazione per L’Italia di domani?“), solo il 26% degli europei (23% degli italiani) preferisce un approccio che consenta l’ingresso solo agli immigrati più qualificati, ma senza una previa offerta di lavoro. Il 58% dei cittadini interrogati, invece, predilige la soluzione più tradizionale (in Europa): entra solo chi ha una specifica offerta di lavoro, anche se privo o povero di qualifiche. La via dell’innovazione, insomma, per quanto necessaria, non sarà politicamente facile da percorrere.