I dilemmi della mobilità

Ferruccio Pastore, Ettore Recchi, Aspenia 45: Krìsis: stati, mercati, monete, Aspen Institute Italia, giugno 2009, www.aspeninstitute.it

Le due ondate di allargamento a est dell’Unione europea hanno determinato, nell’ultimo quinquennio, un’intensa crescita della mobilità intra-europea. Nel contempo, e di riflesso, il tema della libertà di circolazione all’interno dello spazio comunitario ha subito un processo di forte politicizzazione. La crisi in corso ha ridotto gli incentivi alla mobilità e innescato reazioni restrittive, che hanno direttamente o indirettamente riguardato anche le migrazioni comunitarie. Come ha sottolineato l’OCSE in un importante rapporto recente, la flessibilità è un importante attributo delle politiche migratorie, che devono saper rispondere alla contingenza. Ma la mobilità umana rimane un valore, anche economico, specialmente all’interno dello spazio europeo. Se ne dimostra convinta la Commissione europea che, in questi giorni, ha propostol’abolizione dell’obbligo di visto per soggiorni brevi nella UE, per i cittadini di Macedonia, Serbia e Montenegro (ma non, è questa esclusione sta animando polemiche, Albania e Bosnia Erzegovina).

I dilemmi della mobilità

Dopo gli anni del boom migratorio, oggi la crisi colpisce l’occupazione e quindi l’immigrazione. Ciò spinge i paesi europei a restringere i nuovi ingressi, colpendo anche la mobilità intracomunitaria. Se l’impatto della crisi non può essere ignorato, va ricordato che il fabbisogno di lavoro straniero non scomparirà e che la libertà di circolazione è anche una risorsa per l’Europa: prepariamoci dunque a riaprire le frontiere.

mobilitaA cosa pensano John, Jean e Giovanni quando pensano all’Europa unita? Secondo l’Eurobarometro, che sottopone periodicamente questa semplice domanda a un campione di cittadini di tutti i paesi dell’UE, non vi sono dubbi: alla “libertà di viaggiare, studiare e lavorare ovunque nell’UE”. Così si esprime, anno dopo anno, almeno la metà degli intervistati.

Non l’euro, non la democrazia, non la pace tra le nazioni: la libera circolazione è l’Unione Europea nella testa degli europei. In fondo, non è cosa da poco. Quale porzione del globo può vantare uno spazio senza frontiere tra 27 Stati sovrani? Tanto più in un continente che è stato la culla degli Stati nazione, e in cui per secoli si sono combattute guerre su guerre per difenderne o spostarne i confini. La cittadinanza europea – che ha nella libera circolazione la sua pietra angolare – consente di spostarsi e risiedere in qualunque paese dell’UE, godendo dello stesso trattamento che ogni Stato riserva ai cittadini nazionali.

Un regime sui generis, che continua a configurarsi tecnicamente come migrazione internazionale, ma alle condizioni tipiche di una migrazione interna. Per rimarcare anche semanticamente l’innovazione, nei loro documenti le istituzioni di Bruxelles sempre più definiscono gli spostamenti intracomunitari come “mobilità” anziché “migrazione”, termine quest’ultimo riservato ai movimenti di popolazione proveniente da paesi terzi. “Mobilità” significa migrazione in prima classe, senza i fastidi dei documenti,
dei controlli, dell’affollamento e del rischio che caratterizzano il viaggio e l’insediamento del migrante tradizionale.

Mobilità: parola chiave dell”integrazione europea

Dalla sua prima formulazione embrionale nel trattato istitutivo della CECA nel 1951, il diritto di attraversare liberamente le frontiere degli Stati membri si è via via arricchito di prerogative accessorie e ha ampliato la platea dei possibili fruitori: dai soli minatori e operai metallurgici all’inizio degli anni Cinquanta a tutti i lavoratori alla fine degli anni Sessanta, fino a estendersi a ogni persona economicamente autosufficiente negli anni Novanta del Novecento. Con effetti giuridici di vasta portata giacché – consentendo tra l’altro l’accesso a prestazioni assistenziali pubbliche su scala transnazionale – questo diritto contribuisce indirettamente alla costruzione di un sistema armonizzato di welfare europeo, erodendo un altro spicchio di sovranità esclusiva degli Stati membri.

È il caso di ricordare che in America il regime di libera circolazione fra stati venne riconosciuto quale diritto costituzionale solo negli anni Quaranta, e che questo passaggio risultò fondamentale per la creazione di uno Stato federale in senso pieno [1].
Nell’ultimo mezzo secolo, insomma, il diritto alla mobilità nell’Unione Europea si è anzitutto approfondito. Ma si è contemporaneamente allargato: nella maniera più spettacolare e significativa nel 2004 e nel 2007, con l’ingresso nell’UE di 12 nuovi Stati membri, 10 dei quali collocati nell’area orientale del continente e per circa quarant’anni separati dall’Europa occidentale dalla guerra fredda: dalla “cortina di ferro”, quindi, alla libera circolazione dall’Atlantico agli Urali (ma soprattutto nella direzione opposta).
Quel che per i cittadini dei regimi socialisti era un sogno proibito – che i più visionari coltivavano costruendo aerei ultraleggeri negli scantinati – è divenuto un diritto soggettivo esercitabile semplicemente comprando un biglietto del treno.

Questa opportunità non è stata ignorata. Dei 10,5 milioni di cittadini europei che a fine 2007 risiedono in uno Stato membro diverso dal proprio (ufficialmente, perché molti sfuggono alle maglie delle statistiche, proprio in virtù della facilità di movimento garantita dalla libera circolazione), oltre il 40% proviene dai nuovi paesi membri [2].

La maggior parte di questi protagonisti emergenti della libera circolazione assomiglia,per caratteristiche demografiche e soprattutto per profilo occupazionale, ai migranti “classici”: nel 2007 il 31% degli europei mobili originari dell’UE a 10 e il 39% di romeni e bulgari hanno un lavoro “manuale non qualificato” [3]. E tuttavia, i loro diritti (malgrado il persistere a macchia di leopardo delle misure transitorie per limitare i flussi di lavoratori dai nuovi paesi membri) sono decisamente più solidi di quelli degli immigrati non comunitari. Così come sono minori i costi della loro eventuale mobilità ulteriore, sia di ritorno alla madrepatria sia di successivi spostamenti – il che costituisce il vero vantaggio competitivo, individuale e sistemico, dei cittadini europei mobili rispetto agli immigrati dai paesi terzi.

La intensità dei movimenti nel vecchio continente

Nell’ultimo quinquennio del secolo scorso, il saldo migratorio (cioè la differenza tra immigrati ed emigrati, esclusi i movimenti irregolari e clandestini) dell’Unione Europea a 15 era stimato in poco più di 600.000 individui all’anno, grosso modo la metà degli Stati Uniti. Nei cinque anni successivi, l’UE a 25 registrava una crescita netta dell’immigrazione quasi doppia, che consentiva uno storico sorpasso nei confronti degli Stati Uniti, i quali, nel frattempo, anche per effetto del giro di vite seguito all’11 settembre, avevano conosciuto un lieve calo degli ingressi. Il trend europeo è proseguito negli anni più recenti, con un picco nel 2003, quando il saldo migratorio dell’insieme dei 27 Stati membri attuali ha superato i due milioni. Da allora, stando alle stime di Eurostat, la tendenza si è stabilizzata, ma su valori decisamente alti rispetto a un passato anche recente: tra 1,6 e 1,9 milioni di presenze straniere in più ogni anno [4].
Senza averlo programmato, l’Europa ha dunque vissuto un vero e proprio boom migratorio. Si è trattato tuttavia di un fenomeno fortemente asimmetrico: in termini assoluti, i flussi più massicci si sono registrati in Spagna, Germania e Regno Unito, con l’Italia staccata di poco. Dal punto di vista delle implicazioni sociali e politiche, però, è più interessante guardare a quell’indicatore di “intensità migratoria” che è il numero di nuovi immigrati per ogni 1000 abitanti su base annua: mentre la maggioranza degli Stati membri si colloca tra il 5 e il 10%, solo due paesi (tralasciando i particolarissimi casi di Cipro e Lussemburgo) registrano incrementi situati tra il 15 e il 20%: l’Irlanda e la Spagna [5].

Fino a pochi mesi fa, questi dislivelli erano interpretati come indici di maggiore vitalità di alcune economie nazionali, il cui dinamismo si esprimeva anche nella capacità di assorbire e valorizzare manodopera straniera. Letti oggi, sullo sfondo della crisi economica e occupazionale in corso, gli stessi dati si caricano di tonalità inquietanti. Perché proprio alcuni dei paesi che hanno trainato in maniera più decisa il boom migratorio europeo sono quelli che oggi conoscono la frenata occupazionale più brusca: -5,3% a Madrid e addirittura -9% a Dublino, a fronte di un calo complessivo del 2,6% nell’intera Unione a 27 [6].

Disoccupazione e immigrazione

mobilita2Nel dibattito politico interno dei paesi più colpiti dalla crisi economica, si moltiplicano le voci, non solo di opposizione, che condannano le scelte di politica migratoria degli ultimi anni. Spesso in queste condanne c’è una dose, più o meno forte, di strumentalizzazione, nella misura in cui esse sorvolano sul fatto che i tassi di crescita record conseguiti negli ultimi anni da Madrid e Dublino sarebbero stati impensabili senza massicce iniezioni di lavoro immigrato.
Indubbiamente, però, i dati che abbiamo riportato segnalano un nodo reale e delicato: i paesi con modelli di sviluppo più labor intensive – come quelli che hanno fatto fortemente leva sul settore delle costruzioni – hanno dovuto ricorrere in misura più ampia all’immigrazione non stagionale, e oggi si trovano maggiormente esposti all’impatto socio-occupazionale della crisi. Il contrasto è netto con i paesi che hanno saputo puntare di più su settori a maggiore intensità di capitale, tecnologia e innovazione. Questo non significa ovviamente che la Germania, avendo scommesso con successo sull’export hi-tech, sia al riparo dalla crisi globale; ma la “locomotiva d’Europa”, sebbene oggi quasi ferma, corre forse minori rischi di disgregazione sociale e frizioni interetniche rispetto a paesi più “immigrivori”.
Per non fare di ogni erba un fascio, però, bisogna differenziare ulteriormente. Bisogna dire, per esempio, che la capacità di un paese di assorbire uno shock occupazionale che colpisca con particolare forza la manodopera immigrata dipende, oltre che dall’efficienza del welfare (comprese le politiche ad hoc per l’integrazione degli immigrati), anche dal tipo di immigrazione. Se gli immigrati, soprattutto quelli arrivati di recente, hanno prospettive concrete di un soddisfacente reinserimento in patria, è probabile che una parte della manodopera in eccesso defluisca spontaneamente. Sembra essere quello che succede oggi all’interno della massiccia comunità polacca nelle isole britanniche.
Forse le guesstimates azzardate in autunno da alcuni esperti, secondo cui un terzo dell’1,2 milione di polacchi in Gran Bretagna e Irlanda avrebbe fatto entro breve ritorno in patria, si riveleranno esagerate [7]; ma è certo che, anche in questi frangenti drammatici, la libertà di circolazione (che garantisce comunque a questi migranti di ritorno la possibilità di riemigrare un giorno, rapidamente e senza ostacoli) si rivela ancora una volta una formidabile risorsa, anche economica: non solo polmone di crescita, ma anche ammortizzatore di decrescita, alla bisogna.
Certo, se invece il paese di origine non offre prospettive, ritorni di massa risultano più difficili. è la ragione per cui un controesodo massiccio dei romeni dall’Italia o dalla Spagna appare improbabile, visto il catastrofico deterioramento delle prospettive economiche della Romania, passata da una crescita del 7,1% nel 2008 a previsioni recenti di una contrazione del 3-4% nel 2009, nonostante il massiccio piano di salvataggio (27 miliardi di dollari) lanciato a marzo da FMI e UE.

Conclusioni impolitiche: prepararsi a riaprire

Malgrado tutto, la retorica ufficiale europea rimane favorevole all’immigrazione economica. Ancora nell’ottobre 2008, i capi di Stato e di governo dei 27 hanno adottato il Patto europeo sull’Immigrazione e l’Asilo, sorta di manifesto programmatico fortemente voluto dalla presidenza di turno francese.
Vi si proclamava, tra l’altro, che le migrazioni internazionali possono “contribuire in modo decisivo alla crescita economica dell’Unione Europea e degli Stati membri che hanno bisogno di migranti a motivo della situazione del loro mercato del lavoro o della loro situazione demografica […]. D’altronde – proseguiva il documento – l’ipotesi di un’immigrazione zero appare nel contempo non realistica e pericolosa”.
Negli ultimi anni, l’apertura proclamata a livello europeo è stata di fatto praticata a livello nazionale. La Spagna è diventata uno dei maggiori paesi di immigrazione al mondo, in parte grazie a una politica attiva, sorretta (almeno fino alle elezioni del 2008) da un consenso bipartisan di fondo. Anche la Gran Bretagna dell’era Blair ha innovato consapevolmente, riaprendo le frontiere di un paese che da decenni ammetteva quasi soltanto migranti dal Commonwealth.
L’Italia ha praticato politiche oscillanti, specie sul terreno dei diritti degli stranieri; nei fatti, però, anche il nostro paese è rimasto aperto a flussi imponenti, anche sotto maggioranze politiche elette sulla base di promesse di chiusura. A cavallo del nuovo secolo, la Germania ha rivoluzionato il proprio diritto della cittadinanza in senso più inclusivo; più recentemente, Berlino ha cominciato anche a sperimentare, sebbene con cautela, politiche di ingresso meno asfittiche per le fasce alte del mercato del lavoro.
Persino la Francia, pur rimanendo il più chiuso tra i grandi paesi europei, ha allentato alcuni vincoli all’ingresso, anche se in forma estremamente selettiva e limitando al massimo le opportunità di permanenza prolungata.

Giro di vite

Nel breve volgere di pochi mesi, queste timide avvisaglie di primavera nelle politiche migratorie europee sono state congelate dalla crisi. Tra il 2008 e il 2009, tutti i maggiori paesi hanno imposto giri di vite più o meno stretti in materia di nuovi ingressi.
In effetti, date le circostanze, continuare a importare lavoro come se niente fosse sarebbe non solo politicamente suicida, ma anche socialmente irresponsabile. Ma è impossibile ignorare alcuni dati di fondo:
a) Il fabbisogno di lavoro straniero non scomparirà. La ripresa potrà essere più lenta in alcuni settori immigrant intensive (come le costruzioni); può darsi che una parte dei posti di lavoro spazzati via dalla crisi, specialmente nel settore manifatturiero, non tornino mai più; può anche darsi che alcune fasce della forza-lavoro autoctona modifichino stabilmente i propri atteggiamenti e tornino a considerare appetibili lavori che in questi anni sono stati demandati agli immigrati. Malgrado tutto ciò, le prospettive demografiche dell’Unione Europea reclamano lavoro immigrato. D’altra parte, non è un caso che anche un governo poco xenofilo, come quello italiano attuale, abbia negli ultimi mesi discretamente consentito l’assunzione di 230.000 nuovi immigrati (150.000, perlopiù domestiche e “badanti”, con il decreto del 3 dicembre 2008; 80.000 stagionali con il decreto del 20 marzo 2009). Ne consegue che riformare le politiche
europee dell’immigrazione economica nel senso di una maggiore efficienza, trasparenza e rapidità, rimane una priorità strategica.
b) Una immigrazione massiccia e non integrata è destabilizzante. Sondaggi recenti segnalano che un’ampia fascia delle opinioni pubbliche europee vede con grande ostilità nuovi flussi di immigrazione [8]. è probabile che la crisi in corso stia ulteriormente erodendo la propensione all’accoglienza. Ma a fronte di persistenti fabbisogni di immigrazione, la politica non può esimersi dal perseguire un disegno di integrazione – quale che sia la sua filosofia ispiratrice. “Integrazione” non vuol dire soltanto sostegno per un buon inserimento abitativo, scolastico, lavorativo e culturale dei nuovi arrivati, ma anche lotta all’illegalità (di tutti), allo sfruttamento lavorativo, al razzismo e alla discriminazione.
c) La libertà di circolazione rimane una risorsa per l’Europa. L’ondata di chiusura in corso investe anche la “migrazione in prima classe”, come abbiamo definito la mobilità intracomunitaria. Alcuni governi si sono mostrati sensibili a queste pulsioni xenofobe indiscriminate, ipotizzando o adottando restrizioni di dubbia legittimità: le istituzioni europee si sono mosse in difesa dei principi fondamentali, sia con la giurisprudenza della Corte di Giustizia sia con specifiche e inedite prese di posizione critiche da parte della Commissione europea. Ciononostante, mai come ora la libertà di circolazione si è trovata sotto tiro. Alle ronde antiromeni in alcune periferie del nostro paese hanno fatto da eco e contrappasso le manifestazioni contro i lavoratori italiani nel Lincolnshire a inizio 2009, nel tipico abbraccio infausto tra recessione e xenofobia.
Quando il lavoro viene a mancare, ogni straniero – poco importa la nazionalità – diviene facilmente capro espiatorio: se conserva l’impiego, lo ruba al nativo; se lo perde, è un peso per il welfare nazionale.
Tra le cause di simili reazioni vi è anche la mancata previsione del massiccio impatto migratorio dell’allargamento del 2007. Un errore di Bruxelles e dei governi nazionali, che ha amplificato il backlash successivo. Sarebbe però gravissimo smettere di vedere la libertà di circolazione come uno dei motori dell’integrazione europea per concepirla invece come un tallone d’Achille dell’intero processo. Oltre agli aspetti politico-simbolici che vi si legano [9], la mobilità interna ha prodotto non trascurabili effetti virtuosi sull’economia del continente. è sufficiente ricordare che il tasso di occupazione dei cittadini dell’UE a 10 in età da lavoro che sono emigrati nella “vecchia Europa” è pari al 78%, cioè superiore di oltre il 10% alla media dell’UE a 15 [10]. I nuovi europei mobili hanno braccia e menti operose che, nell’ultimo lustro, hanno contribuito vigorosamente a far girare la ruota dei nostri sistemi produttivi. Finché i differenziali interni favoriranno la mobilità intracomunitaria (il salario medio in Polonia è ancora un quarto e in Romania e Bulgaria un decimo della media dell’UE a 15), sarebbe una prova di seria miopia non sfruttare questa risorsa europea, per importare forza-lavoro dall’esterno confinandola poi nella irregolarità e nella marginalità.


[1] Si veda Stefano Giubboni, “Free movement of persons and European solidarity”, European Law Journal, vol. 13, n. 3, 2007, pp. 360-379.

[2] Agnès Bradier, Workers’ mobility in the EU, presentazione al seminario “Labor mobility in transatlantic perspective: American ‘movers’ vs. European ‘stayers’?, German Marshall Fund, Washington, DC, 21 aprile 2009.

[3] Commissione europea, Employment in Europe 2008, Office for Official Publications of the European Communities, Lussemburgo, 2008, p. 130.

[4] Eurostat, Key figures on Europe. 2009 edition, p. 54.

[5] Anne Herm, “Recent migration trends: citizens of EU-27 Member States become ever more mobile while EU remains attractive to non-EU citizens”, Eurostat, Statistics in Focus, n. 98, novembre 2008, p. 2.

[6] Commissione europea, Economic forecast. Spring 2009, tabella 22.

[7] Matthew Day e Christopher Hope, “Financial crisis: a third of Poles driven home by recession”, Telegraph (edizione online), 23 ottobre 2008. Si veda anche Will Somerville e Madeleine Sumption, Immigration in the United Kingdom: the recession and beyond, rapporto di Migration Policy Institute per la Equality and Human Rights Commission, marzo 2009.

[8] Si vedano i risultati del sondaggio effettuato di recente da un pool di fondazioni europee e statunitensi: German Marshall Fund, Transatlantic trends on immigration survey, 2008.

[9] Sulle conseguenze identitarie della libera circolazione, si veda Ettore Recchi e Adrian Favell (a cura di), Pioneers of European integration: citizenship and mobility in the EU, Elgar, Cheltenham, 2009.

[10] Commissione europea, Employment in Europe 2008, cit., p. 127.