di Viviana Premazzi
La Germania, rispetto a Francia e Belgio, ha una storia nazionale e politiche migratorie più simili a quelle italiane così come livelli di conflittualità sociale nelle periferie molto più bassi. Ciononostante, nell’ultimo anno si sono registrati episodi preoccupanti, dalla sparatoria nel centro commerciale a Monaco di Baviera fino al drammatico attacco contro il mercatino di Natale a Berlino, che hanno spinto il governo e, in particolare, il Ministero dell’Interno, prima con il Ministro Alfano e ora con il Ministro Minniti, ad intraprendere ed accelerare una serie di iniziative per contrastare la radicalizzazione e il terrorismo. Tra queste le più importanti sono state: l’istituzione della Commissione di studio sul fenomeno della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista, insediatasi a Palazzo Chigi a settembre 2016, l’utilizzo crescente da parte del Ministro Alfano dello strumento delle espulsioni per terrorismo e i lavori del Tavolo di confronto con i rappresentanti delle maggiori comunità e associazioni islamiche presenti in Italia e del nuovo Consiglio per le relazioni con l’Islam italiano, con il piano moschee trasparenti e il rapporto su “Ruolo pubblico, riconoscimento e formazione degli imam”, che hanno condotto qualche giorno fa alla firma di un Patto tra Ministero e rappresentanti delle associazioni e delle comunità islamiche. Questo è, dunque, il contesto internazionale e nazionale in cui si inserisce il “Patto nazionale per un Islam italiano”, un contesto connotato dalla minaccia del terrorismo internazionale e homegrown, dal senso di insicurezza e paura e dalla conseguente crescita di atteggiamenti islamofobi e discriminatori.
Con la firma del documento si realizza dunque un obiettivo simbolicamente importante: da un lato, la necessità politica di dare un segnale forte nella lotta al terrorismo, dall’altra l’esigenza delle comunità musulmane firmatarie del patto (11 associazioni o organismi settoriali)[1], di ottenere un riconoscimento ufficiale. Una sottoscrizione di impegno verso la tanto agognata intesa.
Il documento, ispiratosi ai patti di condivisione e cittadinanza già precedentemente siglati dalle amministrazioni locali a Torino e Firenze e stilato sulla base del lavoro preliminare svolto dal Consiglio per i rapporti con l’Islam, si compone di tre parti:
– la prima in cui vengono richiamati i principi costituzionali e le norme in materia di libertà religiosa, di contrasto alle discriminazioni e di promozione alla coesione sociale;
– la seconda in cui si esprimono gli impegni dei rappresentanti dell’Islam italiano, tra i quali la formazione degli imam, la trasparenza nella gestione finanziaria dei centri islamici e la traduzione o lo svolgimento dei sermoni in lingua italiana;
– la terza che riguarda le responsabilità del Ministero, tra cui la predisposizione di un percorso che porti alla definizione di un’intesa, la promozione di una conferenza congiunta con l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (ANCI) dedicata ai luoghi di culto islamici e l’incoraggiamento allo sviluppo di iniziative analoghe a livello territoriale, soprattutto nelle realtà dove si registrano criticità.
La prevenzione della minaccia terroristica e il contrasto all’islamofobia (o, per meglio dire, alla cultura del sospetto che la genera) sono state, dunque, il terreno su cui è stato costruito l’accordo, un accordo che, per la prima volta e a differenza delle iniziative precedenti[2], prevede non solo un impegno da parte delle comunità, ma anche dello stesso Ministero.
Il patto si configura, dunque, come un riconoscimento reciproco di valori e di attività già poste in essere dalle comunità islamiche. Come sostiene Stefano Allievi, uno dei membri del Consiglio che ha contribuito alla stesura del documento, “non si deve pensare, infatti, che l’accordo costringa le comunità islamiche a uscire allo scoperto. Molti dei punti – se non tutti – contenuti nel Patto sono già da tempo realizzati dalle comunità che vivono sul nostro territorio nazionale. La firma di ieri significa garantirle da entrambi le parti e sigillarne l’impegno con una firma istituzionale, che salvaguardi la sicurezza di tutti gli italiani – cristiani e musulmani – e che garantisca il riconoscimento e la piena integrazione di coloro che sono musulmani e italiani allo stesso tempo”.
Nonostante la buona volontà alla base del documento e la sottoscrizione dell’impegno da parte di tutte le parti in causa, permangono tuttavia alcune criticità:
- Una delle questioni più importanti rimane quella della rappresentanza delle comunità musulmane. Questa è da sempre il grosso scoglio nella costruzione di un dialogo effettivo ed efficace con le istituzioni, soprattutto a livello nazionale. Anche in occasione della firma del patto, alcuni rappresentanti di associazioni islamiche, escluse dal Tavolo di confronto con il Ministero, sottolineano come, tra i firmatari dell’accordo non ci sia, in realtà, la rappresentanza di quel 70% di musulmani, come invece dichiarato dal Ministro.
- La questione della sovra-rappresentanza di una delle associazioni firmatarie, l’UCOII (Unione delle Comunità Islamiche Italiane), che ha, nel Tavolo, più membri rispetto alle altre associazioni e che è passata da associazione “ripudiata” a livello ministeriale, in quanto accusata di vicinanza all’Islam politico, ad organizzazione “ricercata e benvoluta”, considerata oggi nuova espressione dell’Islam moderato italiano, prendendo il posto di chi, seppur meno rappresentativo, se ne faceva da tempo baluardo.
- Il richiamo finale, nel patto, alla programmazione di “uno o più incontri di rilievo nazionale e pubblico tra le Istituzioni e i giovani musulmani” avrebbe forse potuto avere una rilevanza e un approfondimento maggiori vista l’importanza delle dinamiche intergenerazionali, anche in relazione ai diversi modi in cui i padri si porranno nei confronti dell’“Islam dei figli”: destinato a essere confinato in associazioni di “eternamente giovani”, oggetto di cooptazione per influenzarne gli orientamenti o titolato ad essere riconosciuto come una “terza via” in grado di esprimere autorità e rappresentanza (viste le competenze relative al contesto italiano e a quello di origine) “per un Islam italiano”. Per Paolo Naso, coordinatore del Consiglio per i rapporti con l’Islam, infatti, i giovani saranno “attori essenziali di ogni politica di integrazione e di dialogo interculturale di oggi, e soprattutto di domani”.
- Il rischio per i musulmani di sentirsi “sorvegliati speciali” e di dover dimostrare ogni volta di essere fedeli dell’Islam e buoni cittadini, come già fatto notare da Brahim Baya, torinese e portavoce dell’Associazione Islamica delle Alpi, tra i promotori e i firmatari del patto di condivisione della città di Torino, in occasione delle dichiarazioni del Ministro Alfano in seguito alla riunione del Tavolo di confronto con i rappresentanti delle maggiori comunità e associazioni islamiche e del Consiglio per le relazioni con l’Islam italiano nell’estate del 2016. Se uno degli obiettivi, più volte richiamato dal Ministro Minniti, era quello di dissociare immigrazione e terrorismo senza, però, sottovalutare il legame tra mancata integrazione e terrorismo, la stessa locuzione “mancata integrazione”, rischia di essere percepita dai molti residenti musulmani già stabilizzati sul territorio – e in alcuni casi anche in possesso della cittadinanza italiana – come un trattamento da “cittadini di serie B”. Cittadini che si trovano, ancora una volta, a ricevere un trattamento eccezionale e unico in attesa di siglare l’intesa con lo Stato Italiano, strumento costituzionale da utilizzare nelle relazioni con le organizzazioni religiose che nel Paese cercano una piena legittimazione giuridica e sociale.
- Da ultimo, la sensazione di essere “trattati in modo ineguale” emerge anche dai commenti al passaggio dedicato all’accessibilità obbligatoria e garantita dal Ministero dell’Interno dei luoghi di culto ai visitatori non credenti. Se questo impegno nasce dall’esigenza di contrastare l’islamofobia attraverso la conoscenza, rispondendo alle preoccupazioni della società italiana verso una religione che continua ad essere considerata e percepita come misteriosa, incomprensibile per lingua e pericolosa per l’uso fatto dai terroristi e dalla propaganda del sedicente Stato Islamico, d’altra parte viene vissuto dai protagonisti come una condizione di “tutela e sorveglianza” e di subalterità: a fronte della sensazione di sfiducia e di stigmatizzazione, il rischio è quello scatenare reazioni di identificazione etnica e religiosa. Già nel 2015, in un’analisi realizzata nell’ambito del progetto “Conoscere il meticciato. Governare il cambiamento” della Fondazione Oasis di Milano, i cittadini musulmani intervistati esprimevano il desiderio di essere giudicati per ciò che realmente svolgevano nella loro vita di tutti i giorni e non in base a potenziali rischi di radicalizzazione e terrorismo o a sospetti infondati[3].
A fronte di tali considerazioni, sarebbe importante valorizzare tutte quelle attività di partecipazione e contributo attivo alla vita della comunità, di collaborazione e dialogo con le istituzioni e con gli altri soggetti, religiosi e non, del territorio, già poste in essere dalle comunità islamiche e dai singoli musulmani, per non considerarli semplicemente “moderati” (o, peggio, “non terroristi”), ma persone che possono dare (e già danno) un contributo alla società.
[1] Unione delle comunità islamiche italiane (Ucoii) Confederazione Islamica Italiana (Cii), Centro Culturale Islamico d’Italia (Cici), Comunità Rleigiosa Islamica (Coreis), Unione degli Albanesi Musulmani d’Italia (Uami), Associazione Cheikh Ahmadou Bamba, Associazione Madri e Bimbi somali, Associazione italiana imam e guide religiose, Moschea di Palermo, Admi, Associazione italo-pakistana Muhammadiah.
[2] Si pensi, in particolare, alla Carta dei Valori della Cittadinanza e dell’Integrazione del governo Amato.
[3] Per approfondimenti Coglievina, S. e Premazzi, V., L’Islam in Italia di fronte al fondamentalismo violento, in Martino Diez e Andrea Plebani (a cura di), “La galassia fondamentalista tra jihad armato e partecipazione politica”, Padova: Marsilio, 2015, pp. 126-138.