Immigrazione e cittadinanza: questioni di uguaglianza

Testo della lectio magistralis tenuta a Modena il 27 maggio 2010, presso il teatro della Fondazione San Carlo, in occasione della quinta edizione della “Lettura annuale Ermanno Gorrieri”, promossa dalla “Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi sociali”.

Segnaliamo contestualmente anche la pagina web del convegno “La condizione dei rom e dei sinti in Italia”.

1. L’apologo della cicogna: chi combatte quale disuguaglianza originaria e chi riesce meglio?

Vorrei iniziare con un apologo. Una cicogna deve consegnare 5 bambini. I paesi in cui deposita i piccoli presentano non solo aspettative di vita e redditi pro capite [1], ma più in generale condizioni e prospettive di esistenza diverse [2]. La cicogna lascia il primo bambino in Norvegia, il secondo negli Stati Uniti, il terzo in Congo (Kinshasa), il quarto a Singapore, il quinto in Arabia Saudita. In qualunque famiglia norvegese il nostro piccolo capiti, è difficile che gli vada troppo male, si tratta, infatti, di un paese con alte aspettative di vita, un reddito pro capite notevole con una distribuzione relativamente ugualitaria, un differenziale salariale basso e in diminuzione nel tempo, un welfare robusto anche a sostegno dei bambini. Negli Stati Uniti, dove la distribuzione del reddito è fortemente e crescentemente sbilanciata, i differenziali salariali sono alti e in aumento (Borjas, ed. it. Cappellari; Del Boca, Del Boca; Venturini, 2010), il nostro neonato può finire molto bene ma anche piuttosto male: magari in sorte ad una mamma adolescente e single, peggio se nera o latina, e restare incastrato in una trappola di povertà [3]. A Singapore non correrà grandi rischi di povertà o emarginazione sociale, ma è meglio che la nostra cicogna eviti un nido di dissidenti. In Congo, le probabilità di una cattiva esistenza sono in ogni caso altissime, così come in tutti i paesi miseri e attraversati da conflitti: lì neppure la vita dei pochi privilegiati è serena e sicura. In Arabia Saudita, un maschietto potrebbe avere alcune garanzie di benessere, anche se non di libertà, ma è bene che la nostra cicogna non depositi una bambina, che vivrebbe nel migliore dei casi in una gabbia vagamente dorata. In altri paesi va anche peggio: le cicogne in viaggio con le bambine – come sappiamo – sono troppo spesso rispedite al mittente. è noto che in Cina e nel Nord dell’India nascono circa 120 maschi ogni 100 femmine. E, seppure in misura meno drammatica, il fenomeno riguarda anche una parte dell’ex Unione Sovietica e non si limita alle classi meno istruite e povere. L’ecografia ha reso, infatti, più semplice la selezione per le famiglie che ne possono usufruire, e che non sono necessariamente le meno attrezzate economicamente o culturalmente.

Farci nascere cittadino o cittadina del paese sbagliato è forse il peggior tiro mancino con cui la lotteria della fortuna può colpirci e costituisce una pesante, ingiusta disuguaglianza originaria. L’emigrazione si può, in ultima analisi, considerare come un coraggioso tentativo di raddrizzare quel tiro mancino, una ribellione contro la scelta arbitraria della cicogna.

Si emigra per riequilibrare una disuguaglianza grave, e tuttavia non estrema. Gli individui che riescono ad emigrare nel Nord del Mondo non sono, infatti, coloro colpiti dalla massima ingiustizia; non vengono dai paesi più poveri, né sono i più disperati (Faini e Venturini 1994; Livi Bacci 2010), non sono quindi coloro che più dovrebbero ribellarsi contro la sorte e verso i quali più forte dovrebbe essere il nostro debito morale. Per emigrare servono coraggio e iniziativa, ma non bastano: occorre avere anche salute, soldi per il viaggio, spesso entrature e risorse per corrompere; si devono possedere reti di conoscenze, capacità organizzative che non s’improvvisano.

Inoltre, una quota d’immigrazione riguarda lavoratori dotati di buon capitale umano, che non sarebbero necessariamente destinati alla povertà nel paese di origine, ma che emigrano perché vorrebbero rendimenti più alti da quel capitale: infatti lo ritengono ingiustamente poco valorizzato in patria (Daveri e Faini 1999). Questi individui tendono – secondo il modello di Roy (1951) applicato da Borjas alle migrazioni (1987) – a prediligere paesi scarsamente egualitari, meno giusti, se per giustizia intendiamo anche un contenimento delle differenze salariali; perché in quei contesti il capitale umano, che costituisce un “merito” più o meno meritato, è remunerato di più. Ad esempio, il differenziale salariale tra diplomati e laureati è molto più alto negli Stati Uniti che in Italia e, mentre nel primo paese si è allargato con il tempo, da noi si è ulteriormente ristretto [4].

Chi viaggia con un bagaglio di competenze più ricco si integra più facilmente, recupera più in fretta l’eventuale svantaggio iniziale rispetto ai nazionali, e spesso li supera per progressione nelle carriere e nei guadagni [5]. Emigrare serve quindi a compensare svantaggi locali, ma premia relativamente di più i viaggiatori più avvantaggiati e quei sistemi economici avanzati che sono capaci di attrarli anche perché sono meno ugualitari.

Vorrei anche osservare che non c’è uguaglianza nella percezione delle disuguaglianze. Il desiderio di migliorare le proprie opportunità di vita, di correggere le scelte della cicogna non si distribuisce omogeneamente rispetto ai tipi diversi di ingiustizia e disuguaglianza di partenza che ho esemplificato all’inizio. L’inadeguatezza del reddito, della libertà politica, della parità di genere non sono valutate allo stesso livello. La discriminazione nei confronti delle donne è gelosamente custodita ed accettata come carattere distintivo da alcune comunità. E non si tratta – come ad alcuni piace credere – solo delle comunità islamiche. Basti pensare al trattamento delle donne nel diritto ebraico, o ricordare il caso famoso di Mary Roy, cristiana di rito siriaco, che si era rivolta alla Corte Suprema indiana per rifiutare l’applicazione della legge comunitaria che regolava il diritto di famiglia per le minoranze cristiane, il Travancore Christian Act.

Secondo quella legge le figlie femmine potevano ereditare solo un quarto di quanto spettava ai maschi e comunque mai più di 5.000 rupie. La corte diede ragione a Mary e sentenziò che dovesse prevalere il diritto di successione generale del paese, l’Indian Succession Act del 1925. Questa decisione provocò reazioni infuocate da parte dei parlamentari cristiani.

Sacerdoti cattolici e di tutte le altre congregazioni tuonarono dai rispettivi pulpiti che così si ledeva l’unità familiare e l’identità religiosa delle comunità cristiane. Come la stessa Roy racconta a Pankaj Mishra, l’autore di Pollo al burro a Ludhiana, un libro di viaggio nell’India minore, la ribellione le costò minacce e ostracismo sociale. Lei non emigrò perché voleva la sua uguaglianza in patria. Ma da parte di altre donne quella disuguaglianza non era e non è avvertita.

A parte i casi di sanguinosi conflitti, di repressioni e stermini per motivi etnici o religiosi, il grosso delle emigrazioni ha avuto ed ha carattere prevalentemente economico. Per quanto riguarda l’asilo, che pure registra flussi rilevanti, come ha osservato Stephen Castles [6], è difficile individuare la motivazione prevalente, perché spesso, nei paesi dove si negano o si limitano diritti politici e civili, scarseggiano pure le opportunità economiche. La difficoltà di distinguere tra richiedenti asilo e irregolari (che sono in larga maggioranza overstayer entrati con visti turistici poi scaduti) si ha pure qualche evidenza empirica.

Nel 1999, il governo Ceco varò una legge che aboliva la possibilità di convertire visti turistici, spesso già scaduti, in permessi di soggiorno e lavoro, ma consentiva ancora questa trasformazione a chi era entrato per ragioni di asilo. Si ebbe come conseguenza un enorme aumento di richieste di asilo e, come ulteriore conseguenza, il governo rese molto più stringenti i requisiti per essere accettati come rifugiati.

Come pezzi su una scacchiera, le restrizioni all’immigrazione si muovono da una casella all’altra per mettere sotto scacco l’immigrazione indesiderata, perché considerata poco utile o culturalmente rischiosa.

Se possiamo interpretare il diritto ad immigrare, e ad ottenere eventualmente la cittadinanza, come un’opportunità di riscatto conquistata contro la scelta originaria della cicogna, dobbiamo prendere in considerazione il fatto che, in certe fasi storiche, i cittadini dei paesi avvantaggiati dalla scelta iniziale possono cercare di proteggersi da quella che giudicano una mossa del cuculo, un ingresso indebito di stranieri o di alcune categorie di stranieri a loro danno.

2. Atene contro la mossa del cuculo, e perché le ragioni degli insider di ieri non valgono oggi

Come sappiamo, nel suo classico lavoro, A Theory of Justice (1971), John Rawls aveva proposto di fondare eticamente le decisioni pubbliche su una congettura. Suggeriva di immaginare che fossimo coperti da un velo di ignoranza rispetto alla nostra sorte. Se non conoscessimo gli esiti della lotteria della fortuna che decide sulla condizione originaria delle nostre vite assegnandoci, al momento della nascita, a classi sociali ben diversamente fortunate, se non conoscessimo la destinazione della nostra cicogna, saremmo assai più favorevoli a politiche ridistributive.

In lavori più recenti, come The Law of Peoples (1999), Rawls ha osservato l’impossibilità di applicare a livello globale gli stessi criteri di giustizia, per la mancanza di agenti statuali affidabili, perché i popoli hanno livelli troppo diversi di civiltà democratica, di bisogni primari insoddisfatti, di diritti umani calpestati. Conseguentemente, sono molto diversi i loro titoli a ricevere sostegno o ad essere accettati come immigrati. Ma, proviamo ad estendere – contro il parere dell’autore – la congettura iniziale di Rawls a livello globale. In tal caso, si potrebbe suggerire che, se non sapessimo dove la cicogna potrebbe depositarci – non solo in quale classe sociale, ma anche in quale stato – vorremmo probabilmente non solo leggi più generose in termini di trasferimenti di redditi e di opportunità nei confronti degli svantaggiati all’interno dei nostri paesi, ma vorremmo anche decisioni più generose verso l’esterno, verso i cittadini di paesi stranieri poveri. Semplicemente perché rischieremmo di essere noi, quei poveri. Saremmo favorevoli a spendere di più in solidarietà oltre frontiera, e soprattutto, come ci insegnano gli studi sull’impatto degli aiuti internazionali (Sachs 2005), a spendere meglio. Vorremmo misure che prevedessero una maggiore apertura sia delle frontiere fisiche all’immigrazione, sia di quelle dei diritti assegnati agli immigrati, fino ad una concessione non troppo severa della cittadinanza. Insomma saremmo disposti a dare maggiori opportunità di riscatto a chi ha avuto di meno, ovunque esso si trovi.

La ricetta rappresenta un bel modello normativo sul piano dell’etica pubblica, ma politicamente appare impraticabile a livello internazionale e, in una certa misura, anche a livello interno, soprattutto per un’ovvia ragione, già evidenziata dai critici realisti di Rawls. Il fatto è che noi sappiamo fin troppo bene qual è la nostra condizione sociale, di quale paese siamo cittadini, e i giudizi pratici su giustizia o ingiustizia li formuliamo oscurati da questo spesso velo di consapevolezza. Quindi, entro peraltro variabili limiti etici, ci troviamo a nostro agio nei privilegi economici [7], politici e culturali di cui godiamo.

A livello statuale, nei paesi democratici, si crea almeno la tensione rilevata a suo tempo da Polanyi (1957) tra il potere ugualitario del voto e il potere disuguale delle elite economiche e aggiungerei politiche. Una tensione, grazie alla quale, se non si vuole abbattere o manipolare totalmente la democrazia, un qualche riconoscimento alla trazione ugualitaria, ridistributiva del voto va data. A livello internazionale questa trazione manca. Ci si deve affidare al più fragile cavo della solidarietà umana.

In questa presentazione, vorrei focalizzare l’attenzione su una delle accezioni di cittadinanza, quella giuridica, di appartenenza allo stato. Lo faccio per una serie di ragioni. Perché questa cittadinanza è sottoposta oggi a dibattiti, discussioni e revisioni in tutti i paesi europei, Italia inclusa. Perché si accompagna al pieno godimento di tutti i diritti sociali e politici, con poche eccezioni [8]. Ma soprattutto perché pone questioni di uguaglianza relativamente poco esplorate.

Possiamo cominciare con il configurare la cittadinanza come un tassello di una posta in gioco nella quale gli immigrati, da una posizione di debolezza, cercano di rimediare all’arbitrio della fortuna e i paesi d’immigrazione, da una posizione di forza, cercano di proteggere i vantaggi derivanti da una sorte più favorevole. Una sorte che ha dato loro non solo un relativo maggiore benessere, ma in certi casi anche una maggiore uguaglianza sociale, politica, religiosa o di genere, che l’ingresso di stranieri o di alcuni gruppi di stranieri si crede possa mettere a rischio. Si teme che i figli del cuculo indeboliscano quei caratteri positivi che generazioni di insider hanno costruito con fatica e impegno.

Guardare alla cittadinanza dalla parte degli insider parrebbe un modo sbagliato per affrontare i rapporti tra cittadinanza e uguaglianza. Le regole della cittadinanza sono, infatti, l’esito di una contrattazione nella quale gli outsider, i migranti, rappresentano il contraente debole, e gli insider, i nazionali, il contraente forte. Tuttavia, è rischioso non prendere sul serio le ragioni degli insider, non solo perché nel gioco politico contano di più, ma anche perché qualche volta le loro ragioni sono interessanti e non sempre prive di valenze etiche.

All’origine delle prime forme embrionali di cittadinanza, intesa come appartenenza ad uno stato, si trova la volontà di proteggere pregevoli diritti e valide identità. La cittadinanza sorge, infatti, come un’immateriale fortificazione posta a difesa della neonata democrazia ateniese. Definire la condizione di cittadino, dandole un’embrionale forma giuridica, doveva servire a proteggere la democrazia da intrusioni esterne e colpi di mano.

La formalizzazione dell’appartenenza alla città stato fu voluta da Pericle. Si otteneva in base in base al requisito della “doppia ascendenza” [9]: l’essere figlio di un cittadino ateniese e di una donna ateniese. Si noti che il maschio è cittadino, mentre la donna non lo è per se stessa, ma solo come veicolo necessario a trasmettere cittadinanza. La decisione di Pericle si spiega non solo con la volontà di tutelare la cittadinanza politica contro i rischi abbinati di tirannidi e intrusioni nemiche, ma anche con la necessità di non svalutare la cittadinanza sociale: il benessere materiale messo a disposizione della collettività. Ad Atene si era instaurata, infatti, la prassi di ridistribuire il surplus, l’eccedenza della produzione agricola tra tutti i cittadini (Loraux 1991). Si comprende quindi perché le naturalizzazioni fossero scarse e riguardassero quasi esclusivamente individui e comunità [10] che avevano combattuto dalla parte di Atene. Una cittadinanza ugualitaria, ricca di diritti politici e sociali, con una forte identità non si poteva estendere alla leggera.

Le guerre contro i Persiani, quelle tra le diverse città e in particolare la guerra del Peloponneso spinsero a formalizzare e poi a consolidare i criteri di appartenenza che in antecedenza erano solo consuetudinari. Si sa però che la cittadinanza che contava ad Atene era e rimaneva quella politica, cioè il diritto di tutti gli uomini liberi a partecipare alla formazione delle leggi alle quali erano sottoposti. Quello era il carattere peculiare della città e la rendeva una comunità, seppure ristretta, di uomini uguali, unica nel suo genere.

Ad Atene, l’eclissi della democrazia la connivenza con i nemici comportarono un’apertura dell’appartenenza, della membership: i Quattrocento oligarchi, prima, e il governo fantoccio dei Trenta tiranni, poi, spalancarono le porte agli stranieri [11], ma privarono al contempo di diritti politici molti ateniesi. I tiranni abusarono dell’istituto dell’atimia, dell’esclusione dalle cariche pubbliche, una misura prima rarissima e comminata come pena infamante ed estrema solo ai colpevoli di gravi reati e di comportamenti indegni. Pochi oppositori del regime furono risparmiati dall’atimia sotto le tirannidi. La cittadinanza politica fu riservata solo a cinquemila persone durante il governo dei Quattrocento e a tremila durante il governo dei Trenta; il resto degli ateniesi fu declassato alla condizione di meteci, di persone prive di diritti politici. Molti ex cittadini degradati a meteci scelsero l’esilio e la lotta armata contro gli usurpatori. Quando i democratici, con Trasibulo, riconquistarono per la seconda volta il potere, effettuarono una revisione delle liste, ridussero il numero dei cittadini, eliminarono molti cuculi, ma restituirono ai cittadini autentici il diritto di partecipare alle decisioni pubbliche. Le sorti della fragile fortezza legale voluta da Pericle dipendeva dall’impegno di chi credeva nella democrazia. Anche oggi la forza delle costituzioni democratiche dipende molto dal loro radicamento nella coscienza politica dei cittadini. In mancanza di quel radicamento sono fragili fogli di carta.

L’uguaglianza ateniese – come sappiamo – era circoscritta ad una cerchia ristretta di uomini liberi, mentre una parte fin troppo ampia di abitanti era esclusa e addetta ai lavori più umili. Sebbene queste stime siano opinabili, si è calcolato che un ottavo circa della popolazione effettiva fosse emancipata, 40.000 persone, al massimo 50.000 [12]. Mentre gli schiavi alla fine del V secolo sono stati stimati in una cifra variabile tra 150.000 e 400.000. Gli altri, i meteci, i residenti stranieri non erano privi di diritti, godevano infatti della libertà di parola e di commercio, erano spesso personalità economicamente e culturalmente eminenti (Murray 2001). Agli schiavi, invece, veniva garantita solo la vita: infatti, in quanto proprietà del padrone, non potevano essere danneggiati o distrutti impunemente. Il passaggio da una condizione all’altra, incluso lo status di libero, era possibile, ma assai poco frequente [13].

Non dobbiamo, però, commettere l’errore prospettico di giudicare regimi del passato, come la democrazia ateniese, con criteri di giustizia contemporanei. Ma l’inverso costituisce uno strumento retorico efficace, perché ci segnala che stiamo girando all’indietro le lancette della storia con risultati spiacevoli per la qualità delle nostre democrazie. Michael Walzer (1983) ha definito moderni meteci gli immigrati lungo residenti che, restando stranieri, sono privi di diritti politici. Ma se restringiamo anche la loro libertà di culto, se limitiamo le loro attività commerciali, se consentiamo il loro sfruttamento indiscriminato, il trattamento dei nostri immigrati si avvicina a quello riservato agli antichi schiavi.

Il caso ateniese ci ha offerto un esempio di ragioni per le quali, in passato, uno stato e i suoi cittadini non hanno voluto estendere la cittadinanza: lo hanno fatto perché temevano di inquinare i caratteri positivi del loro modello. Sebbene – va ricordato – che anche allora, molti nemici della democrazia si trovassero proprio tra gli autoctoni. Oggi – a maggior ragione – la sindrome del cuculo, la percezione infondata dell’immigrato come ontologicamente estraneo può danneggiare ulteriormente il profilo già debolmente ugualitario delle nostre democrazie [14] sia perché inserisce una quota significativa di popolazione con lo status di meteco, sia perché pone le premesse di una competizione al ribasso che può peggiorare le condizioni della componente più debole della forza lavoro nazionale. In sintesi una cittadinanza chiusa non giova oggi alla democrazia.

Passiamo ora a chiederci se una cittadinanza facile costituisca sempre e necessariamente un vantaggio per gli immigrati.

3. Francia, ovvero come dirottare le cicogne e proteggere i nazionali.

L’apertura delle frontiere e del mercato del lavoro del paese d’immigrazione rappresenta sempre un’opportunità per chi è nato nel paese sbagliato. Il vantaggio vale purché le migrazioni si basino su libere scelte. è ovvio che lo stesso giudizio non vale per le deportazioni e le migrazioni forzate o obbligate. La stessa considerazione si applica alla cittadinanza, anch’essa può essere imposta e poco gradita perché giudicata svantaggiosa. Lo ius soli, l’attribuzione automatica della cittadinanza a chi nasce sul territorio, al momento della nascita o al compimento della maggiore età non è stato progettato come strumento a favore degli immigrati. Anche se oggi, quasi sempre, si può giudicare tale.

Il conferimento automatico della cittadinanza a chi nasce sul territorio è stato adottato dagli stati che volevano un’immigrazione da popolamento, spesso a prescindere dalla volontà dei genitori dei nuovi nati. Si tratta di una sorta di dirottamento giuridico della cicogna dall’appartenenza ad uno stato ad un altro. è però un dirottamento ragionevole in quanto sana una discrepanza tra società e stato: il fatto cioè che una persona nata e destinata a vivere in un certo paese, rimanga lì straniero e resti, invece, cittadino di un altro stato con cui mantiene pochi legami [15].

Una volta che si sono importati cittadini da altri paesi e che i loro figli e nipoti sono nati nel territorio di arrivo, trasformare in cittadini le nuove leve volenti o nolenti può costituire anche una misura necessaria per proteggere i nazionali da condizioni di disuguaglianza rispetto agli immigrati.

Ad esempio, nell’Ottocento la Francia adottò a questo scopo forme di cittadinanza sempre più automatiche, cioè indipendenti dalla volontà del destinatario, e persino imposte (Weil 2001). Nel periodo repubblicano, la Francia, sul modello ateniese, si era preoccupata soprattutto di regolare l’accesso alla cittadinanza politica, rispetto alla quale la cittadinanza come appartenenza allo stato rappresentava solo uno dei requisiti.

La prima più importante e stabile regolazione autonoma della cittadinanza come appartenenza avvenne nel 1804: fu allora che nel Codice Civile prevalse il criterio dello ius sanguinis al fine di evitare infiltrazioni straniere. Questo avvenne contro il parere dello stesso Napoleone che avrebbe preferito rafforzare lo ius soli per rimpinguare l’esercito. La seconda preoccupazione si fece più forte e vincolante in seguito.

Nel 1851, fu ideato l’istituto del doppio ius soli, in base al quale era, ed è, automaticamente francese alla nascita il figlio di uno straniero a sua volta nato in Francia [16].

Inizialmente, alla cittadinanza attribuita automaticamente con il doppio ius soli si poteva rinunciare alla maggiore età. Molti lo facevano, specie a partire dal 1872: da quando, cioè, il servizio militare era diventato obbligatorio. Dal 1874, si consentì quindi di rinunciare solo a chi manteneva un’altra cittadinanza con il corrispettivo fardello di leva. Ma, a causa degli ancora troppi stranieri di comodo, la base dei coscritti restava esigua; questo imponeva un servizio militare lungo (5 anni) e molto impopolare. E, mentre i cittadini francesi servivano la patria, i giovani figli o nipoti di immigrati (per lo più italiani e spagnoli) progredivano nel mestiere e sceglievano al meglio nel mercato matrimoniale. Per accorciare i tempi ed evitare discriminazioni bisognava allargare il bacino dei potenziali coscritti ai discendenti degli stranieri (De Wenden 1998). Su pressione degli alti gradi delle forze armate, nel 1889, fu abolita la possibilità di rinunciare al doppio ius soli. E lo ius soli semplice (per i nati in Francia al compimento della maggiore età) divenne automatico, non occorreva richiederlo, ma bisognava prendersi la briga di rinunciarvi. Ed è ancora così [17].

A ben vedere, questa cittadinanza coatta rispondeva ad esigenze di uguaglianza: mirava ad evitare ingiuste esenzioni a favore dei giovani maschi delle comunità immigrate. Ma, di solito, forme di ius soli, se attribuite alla nascita, senza consenso dei genitori e senza possibilità di rinuncia, possono creare anche oggi problemi, specie se gli immigrati vengono da paesi che non ammettono la doppia cittadinanza, specie se quei paesi riservano ai soli cittadini il diritto di possedere o ereditare beni immobili.

Cominciamo a capire che, se si vuole ragionare di cittadinanza e uguaglianza, è bene accantonare alcuni luoghi comuni. Si è visto, ad esempio, che una chiusura può servire a tutelare un regime più ugualitario, che lo ius soli non è sempre il vessillo dei progressisti, che la cittadinanza non va sempre considerata come un guadagno per gli immigrati. Si è osservata l’importanza di guardare anche all’altra faccia del dilemma: alla possibilità che consentire agli immigrati di restare stranieri possa causare danni ai nazionali, ai vecchi cittadini.

3. Italia: la cicogna e i vicini di culla, una disuguaglianza plateale e rischiosa.

La cittadinanza concessa e anche imposta ai figli e ai nipoti di immigrati si colloca in fasi storiche e in luoghi dove l’utilità di un’immigrazione stabile risultava e risulta chiara alla maggioranza dei decisori ed è condivisa nel discorso pubblico.

Lo ius sanguinis si accompagna, invece, alla nascita e al consolidamento degli stati nazione e assume forme radicali in paesi di emigrazione, come quelli del Sud Europa e, almeno in certe fasi, in quegli stati che – come la Germania e l’Ungheria – hanno o hanno avuto una parte cospicua della nazione fuori dalle loro frontiere.

L’Italia unitaria aveva ereditato, in generale, il diritto del Regno di Sardegna che in materia di cittadinanza rispecchiava le costituzioni francesi interessate, secondo il modello repubblicano, a regolare la cittadinanza come emancipazione politica e civile piuttosto che come semplice appartenenza allo stato (Zincone 2006).

Nel Codice Civile del 1865, la cittadinanza come appartenenza al Regno era ancora definita ‘piccola cittadinanza ’, perché era condizione necessaria, ma non sufficiente a dare accesso alla ‘grande cittadinanza’ che implicava la pienezza dei diritti politici e civili [18]. La decisione in favore dello ius sanguinis non derivava solo da un processo imitativo della soluzione ideata nel Codice Napoleonico del 1804, una soluzione che era allora prevalente in Europa. L’Italia si presentava come una nazione che finalmente riusciva a diventare stato. Alla stesura del Codice aveva partecipato Stanislao Mancini, illustre professore di diritto, quindi consapevole del fatto che lo ius sanguinis era un istituto autoctono, un’eredità del diritto romano. Mancini aveva curato in particolare la sezione dedicata alla cittadinanza, e lo aveva fatto da teorico della relazione tra nazione e stato.

La nazione – secondo Mancini (1851) – era la “società naturale di uomini”, legati da “unità di territorio, di origine, di costumi e di lingua, conformati a comunanza di vita e di coscienza sociale”. Il criterio della discendenza rispondeva alla necessità di collegare una società naturale come la nazione allo stato.

La Grande Migrazione italiana che ebbe un picco tra l’ultimo decennio dell’Ottocento e il primo del Novecento [19] spezzò l’unità tra territorio e nazione, ma non intaccò il principio dello ius sanguinis, anzi l’evoluzione della cittadinanza italiana dal 1865 fino ad oggi si può considerare come un continuo rafforzamento dello ius sanguinis al di fuori del territorio, anche “in assenza di unità di costumi di lingua, di comunanza di vita e di coscienza sociale”.

Già con il diritto preunitario e con lo stesso codice del 1865 si era consentito il riacquisto della cittadinanza ai rimpatriati. Una serie di provvedimenti successivi rese sempre più facile mantenere la nazionalità italiana o riacquistarla qualora gli emigrati e i loro figli volessero rientrare in patria e avessero perso la cittadinanza per averne acquisita un’altra [20]. Come paese di emigrazione l’Italia aveva interesse a mantenere legami con la diaspora per ragioni economiche e di politica internazionale: sia per incentivare l’invio di rimesse che insieme all’alleggerimento del mercato del lavoro erano considerate un necessario fattore di sviluppo (Gerschenkron 1962), sia per utilizzare le comunità italiane come lobby degli interessi nazionali all’estero (Tintori 2006).[21]

Ma, nell’Italia liberale, a questo relativo favore per gli stranieri di origine italiana non si accompagnava né un atteggiamento punitivo nei confronti degli altri stranieri, né trattamenti disuguali tra gli altri stranieri. La Legge del 1912 prevedeva la naturalizzazione dopo 5 anni di residenza per tutti e soltanto uno sconto per gli immigrati di origine italiana.

I figli di stranieri nati in Italia potevano chiederla e ottenerla al compimento della maggiore età senza restrizioni.

Il Fascismo, fu prima riluttante a cedere popolazione, ma poi cercò di rafforzare l’uso delle comunità italiane oltreoceano come propagandiste del regime presso i governi dei paesi di accoglienza (Tintori 2006). Per converso, con la legge del 1926 sui fuoriusciti, privò della cittadinanza chiunque criticasse il governo all’estero [22]. E, con le leggi razziali del 1938 tolse la cittadinanza agli ebrei che erano divenuti italiani dopo il 1919 (data dell’annessione di Trento e Trieste). Le leggi razziali riducevano tutti gli ebrei italiani ad una condizione giuridica ben peggiore di quella dei meteci in Atene e, in seguito, la crescente connivenza con il regime nazista li privò anche di quel diritto alla vita che Atene concedeva ai suoi schiavi.

Dopo il crollo del regime, la nuova costituzione repubblicana introdusse clausole di garanzia: l’art. 3 vieta la discriminazione per ragioni di religione, razza, lingua, sesso, opinioni politiche, condizioni personali e sociali e l’art. 22 vieta la privazione della cittadinanza, così come del nome e della capacità giuridica.

Di fatto le discriminazioni di genere continuarono a lungo, incluse quelle in tema di cittadinanza: paradossalmente le donne in Italia, così come in altri paesi democratici, ebbero prima accesso autonomo alla ‘grande’ cittadinanza, e solo dopo alla ‘piccola’. Votarono già per le elezioni amministrative e per il referendum del 1946, ma ottennero il diritto a mantenere la cittadinanza italiana, in caso di matrimonio con uno straniero, solo nel 1975 e a trasmetterla ai figli e al coniuge ancora dopo: nel 1983.

Acquisita la parità di genere, pareva che la cittadinanza italiana si fosse stabilizzata su posizioni di relativa uguaglianza. Ma la legge del 1992, in gran parte ancora in vigore, le fece compiere un notevole balzo all’indietro in termini di uguaglianza (Zincone e Caponio 2002), perché allungò a 10 anni il tempo di attesa dei non comunitari, facendo uno sconto a 4 anni per i comunitari e a 3 per gli ex italiani [23]. I minori devono provare una residenza regolare e continuativa; si tratta di requisiti aggiuntivi che non erano previsti dalla legge del 1912. Due circolari del Ministero dell’Interno del 2007 hanno suggerito di applicarli con flessibilità e moderazione, ma il testo base approvato a maggioranza dall’attuale Commissione Affari Costituzionali vorrebbe riaffermarli.

La legge del 1992 formalizzava la possibilità della doppia cittadinanza, che era diventata inevitabile in un regime di parità di genere, ma in tal modo favoriva pure il mantenimento della cittadinanza italiana da parte di emigrati che avessero acquisito volontariamente una cittadinanza straniera e volessero mantenerla. Per quegli emigrati che, nel frattempo, l’avessero persa si apriva un programma di riacquisizione, i cui termini furono estesi più volte, e a cui fu aggiunto un altro programma nel 2000 e un altro ancora nel 2006 destinato gli abitanti di origine italiana dell’ex Jugoslavia. Solo ai fruitori dell’ultima misura è stato chiesto il requisito della conoscenza della lingua e della cultura italiana.

Ai figli e ai nipoti che ricevono la cittadinanza italiana in eredità all’estero da ascendenti che non l’hanno mai persa o l’hanno in qualche modo recuperata si continua a non chiedere alcun requisito aggiuntivo oltre alla discendenza.

In seguito alle riforme costituzionali del 2000 e del 2001 a questi italiani, che possono essere privi di tutti i caratteri che Mancini attribuiva alla nazione [24], si è data anche – come sappiamo – la possibilità di inviare propri rappresentanti alla Camera (12) e al Senato (6). E, in caso di maggioranze risicate, come fu quella dell’ultimo governo Prodi, qualcuno di questi membri del Parlamento può esercitare un forte potere di ricatto [25].

4. Italia: la cicogna e il nonno sbagliato.

Non tratto qui né delle ragioni che hanno portato un paese già consapevole di essere diventato destinazione di un’immigrazione stabile a varare una legge considerata antiquata dai suoi stessi autori, né delle ragioni che hanno ostacolato finora qualunque riforma in favore degli immigrati e dei loro figli e promosso solo un rafforzamento dello ius sanguinis all’estero, perché di decision making mi sono occupata un po’ troppo negli ultimi anni [26], ma soprattutto perché non è argomento di questa lettura. Vorrei citare, però, un singolo fattore che ha svolto un ruolo importante nel rallentare il processo di riforma: si tratta della giusta priorità, data da parte della advocacy degli immigrati, a sanare disuguaglianze giudicate più gravi. Questa forte “lobby dei deboli”, costituita in gran parte da organizzazioni del mondo cattolico, spesso in alleanza con associazioni imprenditoriali e con le famiglie che impiegano personale immigrato, ha premuto soprattutto per aprire i canali di accesso regolare, per assegnare o conservare agli irregolari e ai loro figli diritti sociali fondamentali e per regolarizzare ove possibile il maggior numero di irregolari. Si è, in altre parole, cercato di costruire una sia pur imperfetta cittadinanza sociale senza puntare fortemente sulla cittadinanza politica. Aver dato priorità a quelle disuguaglianze, per le quali soprattutto si vuol sfuggire al destino della cicogna, ha tuttavia contribuito a lasciarne in piedi una che ci appare piuttosto grave. Ci appare tale sia se la valutiamo in base a ovvi criteri di equità, sia se la giudichiamo sulla base dei richiami che ci vengono dai due casi storici che abbiamo citato.

Torno, quindi, all’apologo della cicogna. Se depositasse uno dei suoi neonati in Italia potrebbe capitare in una famiglia di nazionalità moldava. I genitori del piccolo rischiano di perdere il permesso di soggiorno, se restano disoccupati per più di 6 mesi e con il nuovo accordo di integrazione, se vogliono restare in Italia ,entro 2 anni devono imparare un po’ la nostra lingua, devono conoscere i principi fondamentali della nostra Costituzione, il funzionamento delle nostre istituzioni, dei nostri servizi e devono accettare la carta dei valori fondamentali condivisi [27]. Si tratta di un provvedimento utile nella prospettiva che gli immigrati diventino parte stabile della popolazione. Ma questo investimento non garantisce loro che non saranno mandati a casa, quando non serviranno più.

Se i genitori del nostro bambino sono fortunati e, nonostante la crisi in corso, non perdono il lavoro, se sono pronti ad investire in capitale umano di marca italiana, è probabile che il ragazzo a 18 anni diventi cittadino. Ma –come ho anticipato – il testo base, finora approvato dalla maggioranza, ribadisce il criterio di una residenza continuativa e sempre regolare. Il nostro bambino diventerà cittadino solo se non ha mai lasciato l’Italia e solo se ha completato la scuola dell’obbligo italiana. Per intenderci non può fare un anno di scuola da qualche zio in Inghilterra o in Francia. Lo stesso testo ribadisce anche i 10 anni di attesa previsti dalla legge del 1992 per i genitori del bambino e aggiunge sia il requisito della carta di soggiorno per la quale si deve conoscere la lingua, sia l’obbligo di seguire un corso di un anno di cultura italiana.

La nostra cicogna va anche in Perù, dove lascia un bambino in una famiglia che non parla e non parlerà mai una parola di italiano, il cui nonno emigrato dall’Italia ha sposato una peruviana di origine cilena, la figlia di quel nonno e madre del bimbo ha sposato un peruviano di origine cinese, ma basta che questa mamma vada a iscrivere il bambino al registro degli italiani all’estero per fare di lui un cittadino italiano. Mentre il bimbo di genitori stranieri nato in Italia dovrà stare fermo e buono, il peruviano, potrà risiedere, studiare entrare ed uscire dall’Italia e da tutti gli Stati dell’Unione Europea quando vorrà, potrà anche entrare negli Stati Uniti e in Canada senza obbligo di visto; diventato adulto potrà lavorare in Italia e nell’Unione Europea e, senza neanche aver mai visitato l’Italia, potrà votare per il Parlamento di uno stato di cui forse non sa nulla e di cui poco gli importa.

La cicogna può depositare in un qualunque paese del mondo il nipote di una sola nonna o di un solo nonno emigrati in passato dall’Italia [28] e quel bambino avrà in dote la nostra cittadinanza, ma se deposita in Italia un piccolo con ascendenti non comunitari, la sua sorte come cittadino sarà molto incerta. Insomma, nel reparto maternità anche un singolo nonno può rendere molto diseguali due vicini di culla. Perfino le cicogne del passato, quelle degli antenati, segnano, anche oggi, i destini dei nuovi nati.

Ma basta il richiamo ad un’evidente e arbitraria negazione di uguaglianza a convincere l’opinione pubblica italiana? Se guardiamo i sondaggi [29], questi ci dicono che fortunatamente, nonostante i continui attacchi a una riforma della cittadinanza in senso più liberale, come quella che emerge dalla proposta bipartisan Granata–Sarubbi [30], l’opinione pubblica italiana è ancora favorevole a dare più agevolmente la cittadinanza almeno ai bambini nati o istruiti nel nostro paese. Forse presentare le ragioni dell’uguaglianza può non essere uno strumento risolutivo per ottenere una riforma equa, ma credo aiuti. Gli umani – come ho sostenuto all’inizio – amano i propri privilegi, purché, tuttavia, non appaiano persino ai loro occhi troppo odiosi.

Vorrei aggiungere, per concludere, altre due motivazioni a favore di una legge meno severa non solo per i minori, ma anche per gli adulti residenti stabili. Si tratta di motivazioni rivolte a quella parte di opinione pubblica, forse minoritaria, che ha ancora a cuore lo stato di salute della nostra democrazia.

Per fare questo può essere utile tornare alle due lezioni della storia che ho già utilizzato. Il caso francese ci insegna che bisogna sanare la discrepanza tra società e stato, non solo e tanto per il bene degli immigrati, ma di tutta la comunità nazionale. Il rapido declino della potenza ateniese ci ricorda che neppure alle democrazie antiche ha giovato avere una popolazione con troppi schiavi e meteci. E certo questa restrizione non può giovare ad una democrazia contemporanea che voglia continuare dignitosamente a definirsi tale.