Di Giovanna Zincone *
Una chiave di lettura
è giudizio prevalente non solo tra l’opinione pubblica, ma anche all’interno della classe politica, che integrare le minoranze rom e sinti sia una missione impossibile. Prima di gettare la spugna è necessario capire se e quanto scarsa sia l’integrazione di questi gruppi e rispetto a quali profili. Bisognerebbe anche formulare qualche ipotesi sulle specifiche difficoltà che s’incontrano in quest’impresa. Se si rilevassero sistematicamente le pratiche più innovative e se ne valutassero gli esiti, la missione potrebbe forse apparire meno impossibile. Volendo immaginare una strategia d’inclusione, uno dei maggiori scogli risiede proprio nella carenza di ricerche empiriche sia rispetto alle condizioni, sia rispetto alle politiche adottate. è quanto osservava anche Pietro Marcenaro in occasione di un seminario organizzato dalla Commissione Straordinaria per i Diritti Umani e da FIERI. Seguo la via di chi non vuole gettare la spugna con gli scarsi strumenti conoscitivi a mia disposizione. Lo faccio utilizzando una mappa orientativa che ho proposto in passato per rilevare livelli di integrazione e valutare le politiche pubbliche per gli immigrati. Ritengo che anche in questo caso, per affrontare il problema, si dovrebbero osservare tre aspetti dell’integrazione e porsi politicamente i tre obiettivi corrispondenti.
Possiamo individuare il primo aspetto-obiettivo nell’integrità. Occorre sia capire quanto siano protetti e come proteggere meglio i diritti fondamentali dei singoli individui appartenenti alla comunità, sia valutare quanto rispetto e dignità siano attribuiti alla comunità nel suo insieme. Si deve altresì tenere conto anche del fatto che la protezione di qualunque minoranza non può andare a scapito dell’integrità della maggioranza: sarebbe non solo ingiusto, ma costituirebbe politicamente un grave errore strategico. Il secondo aspetto-obiettivo da valutare riguarda l’interazione. Si tratta di analizzare quanto conflittuali siano le relazioni tra maggioranza e le minoranze in questione e individuare misure orientate a migliorarle. Il terzo concerne l’impatto sul sistema paese. Bisogna capire quanto giovano o danneggiano l’intera collettività i comportamenti delle minoranze, ad esempio, in termini di contributo all’economia nazionale e di rispetto della legalità. Ma occorre anche valutare se e quanto le politiche pubbliche adottate o proposte siano in grado di favorire contributi positivi e scoraggiare comportamenti dannosi da parte delle minoranze, quanto esse aggravino o riducano i rischi di reazioni aggressive, quanto giovino o danneggino i profili democratici del nostro ordinamento giuridico, infine quali semplici conseguenze producano sull’immagine dell’Italia a livello internazionale.
è immediatamente evidente che, se applichiamo questa griglia interpretativa al caso rom, ci troviamo di fronte ad un drammatico fallimento e che a questo fallimento bisogna porre rimedio. è doveroso non gettare la spugna.
Prima di passare ad illustrare meglio i vari aspetti del fallimento, prima di proporre alcuni esempi di buone pratiche, vorrei fare una premessa, che riguarda una riflessione che, come si sarebbe detto un tempo, sta a monte. Si tratta di un’ipotesi azzardata sulla cultura rom, che ho tratto da quanto ho potuto osservare nel breve periodo in cui mi sono occupata di questo tema come Presidente della Commissione degli Immigrati, anche attraverso incontri con rappresentanti di alcune comunità, la visita di campi, la cura di un libro di memorie di un detenuto rom. Mi riferisco ad un involucro culturale. è ovvio che si tratta di una generalizzazione, che non concerne quindi tutti i singoli individui della comunità, molti dei quali hanno già abbandonato quell’involucro culturale o sono desiderosi e pronti ad abbandonarlo, ed è ovvio che le culture evolvono, in particolare se si consente loro di interagire positivamente con ambienti e stimoli esterni. Sappiamo inoltre che ci troviamo di fronte ad una realtà variegata: in termini di gruppi originariamente denominati in base ai loro mestieri, in termini di affiliazioni religiose (cattolici, ortodossi, protestanti, musulmani). Nel caso degli immigrati sono diverse le provenienze nazionali, diverse anche le consuetudini abitative che per alcune nazionalità non prevedono né nomadismo, né vita nei campi. Gli insediamenti possono includere anche altre situazioni di emarginazione o riguardare solo rom, i campi possono essere collocati in località urbane o suburbane piuttosto che nelle vicinanze di piccoli villaggi o in luoghi del tutto isolati, soprattutto possono essere campi regolari, quindi almeno relativamente attrezzati o irregolari dove le condizioni di vita sono drammatiche.
Si tratta di differenze che generano difficoltà nell’affrontare con soluzioni standard gli obiettivi che ho prima citato. Infatti, la Comunicazione della Commissione Europea dell’aprile 2010 sull’integrazione dei rom individua quattro categorie sulla base della propensione o meno al nomadismo, del tipo di insediamenti in cui vivono, dello status giuridico e suggerisce interventi differenziati.
La diversità di status giuridico (cittadini italiani, comunitari, non comunitari, rifugiati) costituisce una differenza cruciale nella programmazione delle politiche. Proprio il fatto che la componente di cittadini sia preponderante e che molto cospicua sia quella comunitaria è un aspetto spesso ignorato, forse anche per questo si sono prese in passato soluzioni ingenuamente drastiche e giuridicamente impraticabili, almeno in base al diritto italiano e comunitario vigenti. Le molteplici diversità menzionate rendono pure molto azzardate le considerazioni che seguono.
Nonostante tutti questi caveat avanzo ugualmente la mia spericolata ipotesi perché mi pare possa risultare utile a trovare soluzioni. Mi sembra che ci troviamo di fronte ad una sorta di coabitazione tra culture temporalmente sfasate. Quando mi sono occupata di questo tema mi è parso di cogliere, nella comunità rom, i tratti di una cultura premoderna dolorosamente inserita nella modernità. Mi sono sembrate premoderne le relazioni di genere, quelle tra genitori e figli, tra suocere e nuore, il carattere esteso delle famiglie, la propensione all’endogamia. Così pure mi è parsa antica la prevalente cultura orale e la conseguente trasmissione per questa via dei saperi e delle regole. Tale può apparire la riluttanza ad utilizzare strumenti come la registrazione dei matrimoni, delle nascite, l’acquisizione di titoli di proprietà sui terreni, così come il ricorso a giurì d’onore interni alla comunità piuttosto che ai tribunali ordinari. Premoderni si possono considerare l’uso dello spazio (volere vivere all’aria aperta e senza troppe costrizioni nei movimenti) e l’uso del tempo (la difficoltà ad accettare scansioni troppo rigide). I lavori di arrotino, di calderaio, di giostraio, come quelli circensi non trovano grandi opportunità nelle economie e nelle attività ludiche contemporanee. Così come premoderno mi è sembrato il valutare lo status all’interno della comunità in base alla capacità di mostrare opulenza, di non badare a spese, persino di sprecare alla grande se si tratta di festeggiare e celebrare, che si unisce però nella quotidianità alla propensione a riutilizzare, a recuperare, a non sprecare. Ho avuto l’impressione che noi gagè fossimo considerati ingenui schiavi del lavoro e dei suoi ritmi oppressivi, accumulatori di beni superflui, perché per assenza di tempo libero non siamo in grado di goderne. Secondo quest’ottica, la perdita di un po’ di surplus inutilizzato non dovrebbe arrecare troppo danno. Purtroppo tale discrepanza di fondo tra valori e regole interne alla comunità, e valori e regole esterne può indurre in alcune frange una sorta di indifferenza alle regole, di abbandono anche del vecchio codice d’onore, con il risultato di innalzare l’asticella della devianza verso reati più gravi. Di queste frange criminali non mi occupo perché le politiche d’integrazione non sono rivolte a loro. Né riguardano i rom già abbondantemente integrati, ovviamente neanche quelli di successo, che purtroppo tendono a non farsi carico delle sorti dei rom rimasti indietro.
Lo schizzo che ho tracciato non riguarda quindi il variegato universo di cui stiamo parlando, ma solo una parte ‘intermedia’ che si può integrare ed è perciò quella che pone la sfida politica maggiore. è di questa fascia che dobbiamo occuparci perché presenta serie difficoltà e richiede strategie non banali. Inoltre, è proprio la loro cultura ‘premoderna’ che rivolge un implicito richiamo critico ai nostri moderni ritmi di vita.
Individuare soluzioni compatibili, ponti di congiunzione con la maggioranza – sia sul piano pratico sia su quello culturale – non è facile. C’è, però, una soluzione certamente sbagliata. Quella che ritiene accettabile far corrispondere a questa cultura, per alcuni tratti premoderna, condizioni di vita premoderne aberranti: soluzioni abitative indecorose, servizi sanitari latitanti, accessi negati a beni primari come l’acqua corrente, mortalità infantile più estesa, aspettative di vita più corte anche per gli adulti, labili opportunità di istruzione per i bambini. è proprio questo che capita.
Le condizioni drammatiche dei rom non riguardano solo l’Italia. Si tratta di un’emergenza europea, come è stato rilevato dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo. Rilievi all’Italia sono giunti dalla Commissione Europea sul Pacchetto Sicurezza (decreto 92 del 2008) giudicato in contrasto con la direttiva comunitaria (38 del 2004) sulla libera circolazione perché avrebbe previsto l’espulsione dei comunitari e non la semplice intimazione anche per mancanza di reddito e non esclusivamente per ragione di sicurezza nazionale, di salute e ordine pubblico, come prevede la direttiva. Il Ministro Maroni si è adeguato ai richiami, anche se li ha considerati politicamente errati, perciò l’Italia non è stata sottoposta ad un procedimento d’infrazione. Come peraltro non lo è stata la Francia che, dopo la esasperata ed esasperante reprimenda della commissaria Reding , ha corretto il tiro ritirando l’indicazione di dare priorità in tema di espulsioni ai rom, un’indicazione in contrasto con il principio di non discriminazione che vieta sanzioni su base etnica. La Francia ha pure sostenuto che si trattava non di espulsioni, ma di rientri volontari attuati con incentivi in denaro. Ma sia la Francia che l’Italia vorrebbero la revisione della direttiva, in modo da poter espellere anche chi sia privo di fonti di reddito certe.
I governi italiani e francesi non sono in punizione dietro la lavagna e preparano una contromossa, ma siamo certi che se la linea franco – italiana passasse si risolverebbero molti problemi? Non credo. Le espulsioni di massa sia coatte, sia incentivate sono costose e, nel caso dei comunitari, sono vanificate dalla facilità a rientrare. E certo non affrontano la questione umanitaria, il rispetto dell’integrità delle persone.
Il Trattato di Lisbona ha inglobato la Carta Europea dei diritti Fondamentali nella Costituzione Europea. La Carta stabilisce princìpi che – come suggerisce la Comunicazione della Commissione del 2010 sui rom – devono essere messi in pratica. Nel preambolo afferma che “l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza, di solidarietà”. La Carta vieta qualunque forma di discriminazione incluse quelle basate su “l’appartenenza ad una minoranza nazionale” (articolo 21), obbliga a rispettare “la diversità culturale, religiosa, linguistica” (articolo 22). Al fine di combattere l’esclusione sociale “riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto comunitario e le legislazioni e prassi nazionali”; stabilisce che “ogni individuo che si sposti nell’Unione ha diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e i benefici sociali conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali” (articolo 34): stabilisce pure che “ogni individuo ha diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere le cure mediche alle condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali e prassi nazionali” e aggiunge “nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana” (articolo 35).
A suo tempo, la Carta Sociale Europea approvata a Torino nel 1961, ma non inserita nella Costituzione, dettava linee guida più chiare, in particolare l’articolo 30 della seconda sezione Diritto alla protezione contro la povertà e L’emarginazione sociale. “Per assicurare L’effettivo esercizio del diritto alla protezione contro la povertà e L’emarginazione sociale, le Parti s”impegnano a: a) prendere misure nelL’ambito di un approccio globale e coordinato per promuovere L’effettivo accesso in particolare al lavoro, all’abitazione, alla formazione professionale, all’insegnamento, alla cultura, all’assistenza sociale e medica delle persone che si trovano o rischiano di trovarsi in situazioni di emarginazione sociale o di povertà e delle loro famiglie; b) riesaminare queste misure in vista del loro adattamento, se del caso.”
Proviamo ad osservare lo stato di salute di questi principi solennemente affermati per quel che riguarda le minoranze rom in Italia e dare una scorsa su cosa è stato fatto nel nostro paese per migliorare la situazione.
Problemi aperti e tentativi di soluzione
Anche se il mancato rispetto dei diritti umani delle minoranze rom non è un problema solo italiano, anche se non siamo stati oggetto di una procedura d’infrazione, tuttavia sul primo obiettivo dell’integrazione, vale a dire la tutela dell’integrità e del benessere fisico dei rom, l’Italia è stata oggetto di critiche particolarmente pesanti. La relazione periodica universale all’Italia del Consiglio per i diritti umani ha rivolto anche critiche sul tema specifico dei rom. Sia per le condizioni igieniche e sanitarie dei campi, sia per le modalità degli sgombri e dei censimenti, sia per le minori opportunità rispetto all’accesso a beni fondamentali, sia per atti di discriminazione. Il 10 e l’11 marzo 2010, l’alto commissario dell’ONU per i diritti Umani, Navi Pillay, ha visitato il nostro Paese. Le sue dichiarazioni sono state poco lusinghiere: “Sono rimasta profondamente scioccata dalle condizioni dei campi”, ha detto dopo aver visitato il campo di Via Marchetti a Roma. “Per un momento ho pensato di essere in uno dei Paesi in via di sviluppo più poveri e non in uno dei Paesi più ricchi al mondo”. L’Europarlamentare rom ungherese, Victoria Mohacsi, in visita all’Italia nell’ottobre del 2008 ha affermato: “Ho attraversato l’Europa per analizzare le condizioni di vita dei rom e il loro grado di integrazione. Non avevo mai assistito a violazioni di diritti umani così gravi come quelle che le istituzioni italiane rivolgono alla mia gente”.
Le pessime condizioni in cui molti rom sono lasciati vivere non nuocciono solo a loro. I tre obiettivi dell’integrazione (integrità, interazione, impatto) hanno, infatti, ovvie interrelazioni: una minoranza tenuta in condizioni di vita degradanti non favorisce la nostra immagine internazionale, è oggetto di disprezzo, di discriminazioni e di aggressioni, dà luogo quindi a relazioni altamente conflittuali, un capitale umano esposto al degrado è tagliato fuori dal mercato e offre un terreno fertile per attività criminali, produce quindi un impatto negativo sull’intero sistema in termini di costi economici (spreco di risorse umane) e di ordine pubblico.
Nell’ambito dell’integrità, del benessere fisico, delle opportunità di buona vita, i nodi da affrontare non riguardano solo l’abitazione e le condizioni igieniche, c’è il nodo della salute che non è disgiunto dagli altri due. Un’abitazione dotata di condizioni igieniche adeguate costituisce anche la premessa per iscriversi all’anagrafe e per accedere ai servizi pubblici. Al contrario alloggi precari, non collegati con mezzi di trasporto pubblico compromettono anche le possibilità di lavorare, di svolgere un’attività economica e quindi di ottenere un reddito, rendono difficile frequentare la scuola. Proprio l’istruzione costituisce una tappa cruciale nell’auspicabile percorso di uscita dall’isolamento fisico e culturale di queste minoranze, una premessa necessaria per un’interazione normale. Per ottenere la residenza e con essa l’accesso ai servizi sociali, i rom devono avere alcuni requisiti, ad esempio un alloggio decente, però non sono messi in condizione di procurarsi questo requisito necessario. Le scarse case popolari sono attribuite sulla base di alcuni criteri tra i quali la condizione di sfratto e i rom non essendo affittuari non sono sfrattabili. Il piano nazionale di edilizia abitativa prevede il requisito di 10 anni di residenza in Italia e 5 nella regione. Alcune regioni hanno introdotto da tempo il criterio degli anni di residenza per l’accesso all’edilizia sociale allo scopo di tutelare gli autoctoni. Ma, se privi di iscrizione all’anagrafe, anche i rom autoctoni sono esclusi dalle graduatorie, perché non sono formalmente residenti. I rom hanno in generale scarse poche opportunità di vivere in abitazioni in regola, mentre il Pacchetto Sicurezza ha reso questa condizione più stringente per chi voglia ottenere la residenza. Il cerchio si chiude, in particolare, intorno ai rom stranieri. Per loro è difficile ottenere la residenza sia perché non hanno alloggi adeguati, sia perché, avendo difficoltà a trovare lavoro, non hanno neppure i requisiti di reddito richiesti.
Provo ora a trattare un problema per volta e le misure adottate per affrontarlo.
Condizioni abitative decorose costituiscono – come ho cercato di mostrare – una premessa fondamentale per l’obiettivo ‘integrità’ non solo delle minoranze in questione, ma anche della maggioranza, se accettiamo l’ipotesi che il degrado favorisca comportamenti devianti e persino criminali. Il problema, visto che riguarda – come abbiamo osservato – una comunità eterogenea, richiede risposte differenziate.
Bisogna prevedere l’uso di strumenti di azione diversi: l’inserimento in case di edilizia residenziale pubblica (ERP), il sostegno alla costruzione o al recupero in proprio di stabili dimessi, la destrutturazione dei grandi campi fatiscenti e la loro riconversione in unità decorose e gestibili, la messa a disposizione di aree attrezzate per la residenza e il transito. Per capire le diverse esigenze occorre incoraggiare i rom a partecipare ai processi decisionali in modo che possano fornire utili input agli amministratori locali. Occorre pure incoraggiare la partecipazione ai consigli di quartiere. Più in generale si possono utilizzare i classici meccanismi di conciliazione tra interessi diversi e tra gruppi antagonisti, i sistemi decisionali che si adottano in situazioni di attuale o potenziale conflitto.
Si devono evitare sgombri senza preavviso, con scarse e inadeguate alternative, come alcuni sostengono sia avvenuto nel caso di via Barzaghi a Milano o di Centocelle o Casilino 900 a Roma. Certo bisogna usare cautela nel valutare negativamente le operazioni di smantellamento dei campi, perché sono oggettivamente difficili sotto molti aspetti: resistenza di una parte degli occupanti a sradicarsi, resistenza degli abitanti dei quartieri dove dovrebbero sorgere nuovi insediamenti. Questi interventi dovrebbero riguardare la qualità della vita nel suo insieme: tutelare l’unità dei gruppi familiari estesi, garantire trasporti, accesso alle scuole. Si tratta di soluzioni che comportano alti costi economici, organizzativi, di mediazione sociale e politica. Ma, come ha osservato a fine ottobre il Prefetto di Milano, Gian Valerio Lombardi, non si può pensare di risolvere i problemi limitandosi a fare sgombri senza avere approntato soluzioni alternative. Facciamo qualche esempio di cosa è stato fatto da amministrazioni capaci di affrontare il problema senza adottare misure drastiche e rischiose.
A Bologna il comune, insieme con la Regione Emilia Romagna, la prefettura e la questura, ha adottato un piano per l’edilizia residenziale pubblica (ERP), che prevede contratti di sublocazione tra agenzie di intermediazione mobiliare e famiglie rom beneficiarie. L’amministrazione si accolla l’onere della metà del canone d’affitto per quattro anni, al termine dei quali le famiglie stipulano un altro contratto in base al quale sostengono l’intero costo dell’affitto. Tra il 2007 e il 2008 quasi 500 persone sono state inserite in appartamenti, circa la metà degli occupanti sono minori.
è del 2007 il Progetto “Dado” di Settimo Torinese. Qui rom di nazionalità romena, assieme ad altri cittadini stranieri, hanno contribuito alla costruzione di un insediamento dove abitano e possono risiedere per tre anni in vista di un alloggio definitivo. Si tratta di un insieme abitativo gestito da un’associazione locale e perfettamente integrato nel tessuto sociale del posto.
Nel 2006, il consiglio comunale di Modena ha ordinato e ottenuto la chiusura del campo nomadi di Baccelliera, avendo attuato però preventivamente la costruzione di microaree in zone non isolate della provincia. In quelle sedi oggi vivono sinti italiani, che non creano problemi sociali e pagano regolarmente le utenze.
è altresì evidente che non solo le esigenze di gruppi diversi richiedono risposte diverse, ma che bisogna adattare gli interventi ai contesti urbani o extraurbani diversi in cui si collocano gli insediamenti. Le risorse a disposizione possono essere più o meno scarse, diversa può essere la capacità di accedere a fondi europei. Gli atteggiamenti dei residenti limitrofi ai vecchi e ai possibili nuovi insediamenti possono essere più o meno ostili. Contemperare esigenze spesso contrastanti non è comunque un’operazione politicamente facile, ma imboccare, da una parte, frettolose scorciatoie o, dall’altra, retoriche di rifiuto a priori di qualunque soluzione che non sia perfetta non aiuta.
Tutte le scelte dovrebbero, in ogni caso, tener conto della necessità prioritaria che bambini e ragazzi possano frequentare la scuola. Questo è uno dei dieci principi base, una sorta di decalogo per le politiche di integrazione dei rom, proposto dalla Commissione Europea. In Italia sembra che proprio l’istruzione sia l’ambito in cui si stanno facendo maggiori passi avanti. Scrivo ‘sembra’ perché purtroppo le politiche locali rivolte ai rom non sono monitorate a sufficienza e ci troviamo di fronte ad affermazioni contraddittorie: ad esempio, come si concilia la tesi – da alcuni sostenuta – di una perdurante e preponderante propensione al nomadismo con quella di un’accresciuta frequenza scolastica?
L’utilità di coinvolgere gli interessati si è dimostrata importante nell’istruzione, ancora di più che negli alloggi. Le famiglie rom sono talvolta restie a mandare i figli a scuola, sia perché considerano inutile un’istruzione che poi non produce per loro né occupazione né reddito, sia perché temono sia portatrice di valori antitetici destabilizzanti della loro autorità. Le famiglie italiane a loro volta resistono alla presenza di rom come di altre minoranze perché temono lo scadimento della didattica. Per questo ed altri motivi si rileva una maggiore propensione dei bambini e ragazzi rom a frequentare la scuola irregolarmente, a non completare l’istruzione dell’obbligo, a ottenere peggiori risultati. Tra i motivi dei ritardi nel percorso educativo e degli abbandoni, c’è anche la difficoltà a svolgere i compiti a casa per l’assenza di spazi adeguati, per la scarsa istruzione dei genitori, di qui l’utilità di approntare doposcuola per sostenere in generale i bambini svantaggiati. Anche la early education, cioè l’inserimento di bambini provenienti da famiglie con minore istruzione in nidi e scuole materne costituisce una strategia da perseguire. Come hanno dimostrato varie ricerche in particolare quella del Premio Nobel per l’economia James Heckman, i rendimenti degli investimenti nell’istruzione nei primi anni di vita sono molto più alti di quelli su adolescenti: costano meno e danno migliori risultati. Ma per seguire questa strategia bisogna convincere non solo decisori e finanziatori, ma anche le madri rom che non sono abituate a distacchi così precoci. Inoltre sappiamo che i ragazzi rom si allontanano dall’istruzione anche perché hanno il timore fondato di essere oggetto di mobbing, e di questo rischio anche i loro genitori sono consapevoli.
L’ostilità nei confronti dei rom riguarda non singoli comportamenti, ma un’intera comunità, bambini inclusi. Questo induce ad una considerazione di fondo. Ai rom più che per altre minoranze è necessario applicare la ricetta del filosofo canadese, Charles Taylor. Non si possono privare gli individui di un elemento essenziale per il loro di benessere: il riconoscimento della dignità della loro comunità di appartenenza. Gli individui che appartengono a quel gruppo emarginato sono costretti in una condizione di terribile inferiorità, se – come osserva la filosofa politica Elisabetta Galeotti – devono vergognarsi di apparire in pubblico per quello che sono, perché il loro aspetto esteriore rivela un’appartenenza comunitaria disprezzata. La ricetta è eticamente ancora più cogente, quando si parla di bambini, ma non si può applicare solo a loro, non si può applicare solo nella scuola, se vogliamo che funzioni. Un conto è disapprovare alcune prassi e reprimere comportamenti delittuosi, un altro conto è manifestare un continuo indistinto disprezzo per la comunità nel suo insieme. Torno alle azioni concrete e riporto qualche buona pratica per contenere irregolarità e abbandoni della scuola dell’obbligo
Come ho già detto, il coinvolgimento delle famiglie, il rispetto della identità collettiva, il sostegno alla studio sono ingredienti fondamentali e ne fanno uso adeguato gli operatori del Terzo settore particolarmente attivi nel campo dell’istruzione. A Milano, la Caritas ambrosiana porta avanti progetti di inserimento scolastico per gli abitanti del campo di via Novara. I progetti includono la mediazione tra famiglie e scuola, un percorso che offre ai ragazzi strumenti di identificazione con la propria cultura e insegna loro a non vergognarsi della propria specificità. Il programma include laboratori di cucina e di piccola sartoria, corsi di lettura e scrittura per donne adulte. Le donne di via Novara sono spesso analfabete e questo contribuisce a tenerle in una difficile condizione isolamento. Integrare le madri è un passaggio necessario per integrare i figli. Fortunatamente, le donne si stanno organizzando. è il caso, ad esempio, dell’associazione ‘Idea Rom’ di Torino, che ha ricevuto una targa dal Presidente della Repubblica in occasione della cerimonia dell’8 marzo 2010. Si deve puntare sulle donne perché la loro emancipazione è la chiave che consente alla comunità di aprirsi al futuro, di includere le nuove generazioni. La subordinazione delle donne è purtroppo un tratto tipico di queste come di altre minoranze culturali e sul quale occorre incidere, ma è un’operazione da svolgere con cautela proprio perché tocca un carattere identitario della comunità. Capovolgere frettolosamente i rapporti di genere rischia di produrre chiusure a riccio. Lo status poco elevato dei bambini è un altro problema da affrontare e la scuola deve essere lo strumento di una progressiva emancipazione dei minori. Tuttavia, la riforma dei rapporti di potere tra i generi e tra le generazioni non si ottiene in tempi brevi e con metodi bruschi, occorre un’opera di convinzione a lungo termine. Intanto è importante portare i bambini e magari le loro madri a scuola.
Una tattica, che si è dimostrata utile per l’inserimento scolastico, consiste nel coinvolgimento diretto dei bambini nelle attività didattiche, attraverso pratiche per loro piacevoli e adatte ai loro stili di vita. In questo modo si dà un duplice segnale positivo: si riconosce dignità alla differenza, si postula capacità di fare. Un esempio di coinvolgimento degli alunni è stato il laboratorio di fotografia organizzato in una scuola media di Torino da un’associazione locale. Si tratta di un progetto accompagnato dal centro di ricerca FIERI, nell’ambito di un più vasto programma di trasferimento di buone pratiche locali nello spazio o europeo. In questo caso, riprendendo un’esperienza di Budapest, alcuni alunni rom hanno documentato la propria vita attraverso fotografie: questo li ha resi più interessati ad andare a scuola e ha migliorato la conoscenza degli alunni rom da parte dei loro compagni.
Per favorire un’interazione amichevole tra vari gruppi di alunni è utile estendere le pratiche di accompagnamento allo studio da parte di altri ragazzi: compagni di scuola più grandi e competenti , magari della stessa comunità, aiutano i più piccoli o comunque tutti coloro che hanno difficoltà a svolgere i compiti a casa e a superare eventuali difficoltà psicologiche.
La scuola però rischia di funzionare come un binario morto se non facilita l’occupazione. Sia ai ragazzi che ai loro genitori riesce difficile accettare di compiere sacrifici per l’istruzione, quando poi discriminazioni rendono quasi impermeabile il mercato del lavoro per i rom. Borse lavoro e progetti di formazione professionale sono strumenti utilizzati per attivare l’inserimento lavorativo dei rom che andrebbero diffusi.
Se accettiamo l’ipotesi iniziale di una specificità culturale, almeno per coloro legati alla cultura tradizionale, occorrerebbe, come in alcuni casi è stato fatto, facilitare l’accesso a lavori anche stagionali e che possono svolgersi in parte all’aperto: edilizia, agricoltura, intrattenimento in occasione di cerimonie, partecipazione a mercati, attività di riciclo.
Il finanziamento europeo Equal – iniziativa del Fondo Sociale Europeo – ha contribuito notevolmente alla messa in opera di progetti rivolti all’occupazione dei rom. Per esempio, a Torino, Equal è stato uno dei maggiori finanziatori del progetto “Rom cittadini d’Europa”, che è stato gestito dall’amministrazione comunale assieme a diverse associazioni del terzo settore e si è concluso nel 2007. Il progetto ha permesso a 52 persone di ottenere una borsa per lavoro subordinato e a 2 persone di averne una per lavoro autonomo: piccoli numeri che pesano, perché costituiscono un esempio. Lo stesso vale per ‘Kimeta’, collocato nel quartiere dell’Isolotto a Firenze, è un laboratorio di sartoria messo in piedi da donne rom dopo un corso di formazione professionale.
Attraverso corsi di formazione professionale, l’Opera Nomadi di Milano ha promosso l’inserimento lavorativo di oltre venti mediatrici culturali rom nelle scuole e in altre strutture educative. La formazione insegna a valorizzare e a rendere ‘comunicabile’ il patrimonio culturale rom per poter integrare gli alunni. Allo scopo di favorire il lavoro autonomo alcuni comuni hanno concesso ai rom licenze sia per la vendita di abiti usati nei mercati rionali, sia per le attività di riciclo di metallo, controllate in modo da evitare che derivino da furti o che generino esalazioni tossiche. I rischi delle attività di riciclo riguardano gli abitanti della zona e gli stessi rom, che in generale non godono di buona salute.
Le condizioni igienico-sanitarie, nelle quali vivono specialmente negli insediamenti di fortuna, sono troppo spesso pessime. Le rappresentazioni di senso comune tendono a configurare i rom come persone che “per cultura” sarebbero inclini ad accettare sistemazioni invivibili, e questo contribuisce a disincentivare misure volte a favorire il loro accesso alle strutture sanitarie.
Nel settore della salute le iniziative non sono molte. Costituisce un’eccezione la valida opera della Caritas. Citiamo una delle sue iniziative: la campagna per il migliorare l’accesso dei rom ai servizi sanitari condotta a Roma, svolta nel 2006 insieme a Laziosanità – Agenzia di Sanità Pubblica. Il progetto si è occupato di offrire informazioni di base sull’uso più appropriato dei servizi sanitari pubblici, sulla cura delle malattie infettive, ma nel suo ambito sono stati offerti pure servizi gratuiti: ad esempio esami del sangue e della pressione. La campagna, durata due settimane, ha raggiunto bambini che non erano mai stati vaccinati, riducendo la mancanza di vaccinazione dal 40% al 9%. è stato organizzato anche un breve corso di formazione alla medicina interculturale per il personale medico del servizio sanitario. Nel progetto sono stati coinvolti più di 140 operatori sanitari e ne hanno usufruito come beneficiari quasi 2000 persone rom. Solo una minoranza (circa il 30% degli interessati) è stata raggiunta direttamente, il resto è stato coinvolto attraverso un membro della sua famiglia, quasi sempre donne tra i 15 e i 39 anni, in quanto responsabili delle funzioni di cura della famiglia. Le donne si confermano ancora una volta un tramite necessario all’integrazione.
Molti rom, siano essi maschi o femmine, sono formalmente inesistenti sotto il profilo giuridico. L’invisibilità anagrafica è purtroppo largamente diffusa e riguarda anche persone nate in Italia. Si tratta di un problema troppo a lungo trascurato, ma da affrontare con urgenza, perché senza un’identità anagrafica l’accesso ai servizi di welfare e al mercato del lavoro risulta impossibile. Ma per ottenere l’inserimento anagrafico si deve prima avere una residenza. Citiamo a questo proposito una duplice buona pratica.
Il comune di Firenze ha attuato e sostenuto i progetti regionali di accompagnamento all’inserimento delle famiglie in alloggi di edilizia residenziale pubblica e ha dato la residenza agli abitanti del campo nomadi dell’Olmatello, il primo campo costruito alla fine degli anni 1980. Ma la mossa più innovativa è stata l’attribuzione agli abitanti del secondo campo (Poderaccio) della residenza in una via adiacente. Questo ha permesso agli abitanti del Poderaccio di accedere ai servizi di base, di mandare regolarmente i bambini a scuola, e in generale di godere di elementari diritti sociali.
Le misure e le iniziative che abbiamo elencato fin qui indicano che la società civile e le amministrazioni locali hanno operato, a volte anche molto efficacemente, per consentire alle popolazioni rom di avere una vita dignitosa. Ma i molti piccoli buoni risultati di integrazione sociale, senza un piano nazionale rischiano di restare diffusi a macchia di leopardo, di dipendere dal personale politico amministrativo di turno, da risorse economiche disuguali e fluttuanti e quindi di risultare non risolutivi di una situazione di emarginazione sociale profonda e vasta. In altre parole, queste misure cercano di ovviare su scala locale ad un problema che interessa il territorio nazionale, lasciando alle amministrazioni regionali e comunali il ruolo, spesso ingrato, di regolare quello che non è ancora regolato adeguatamente a livello centrale, in più con risorse scarse e decrescenti. Questo è uno dei motivi per cui misure valide non si consolidano e non si diffondono.
Si aggiunga che queste misure sono spesso ostacolate dall’opinione pubblica che esprime malumori e rifiuti quando si tratta di aiutare ‘zingari’, percepiti come un fattore di rischio per il proprio benessere. La crisi economica attuale ha rafforzato tali malumori e può rafforzare opinioni pericolose che già si esprimono in sedi insospettabili. Una recente sentenza del tribunale dei minori di Napoli costituisce un segnale di pericolo. Il giudice, condannando una ragazzina rom di 15 anni in primo grado e in appello a un anno e mezzo di reclusione, ha portato le seguenti motivazioni: “Le conclusioni indicate sono sostanzialmente confermate dalla relazione depositata in atti dalla quale, a prescindere dalle cause, emerge che l’appellante è pienamente inserita negli schemi tipici della cultura rom. Ed è proprio l’essere assolutamente integrata in quegli schemi di vita che rende, in uno alla mancanza di concreti processi di analisi dei propri vissuti, concreto il pericolo di recidiva.” E più oltre: “Sia il collocamento in comunità che la permanenza in casa risultano infatti misure inadeguate anche in considerazione della citata adesione agli schemi di vita rom che per comune esperienza determinano nei loro aderenti il mancato rispetto delle regole”. Si tratta di un giudizio che contrasta con la linea ancora di recente ribadita dalla Corte Europea di Giustizia nel caso Paraskeva Todorova vs. Bulgaria (Application no. 37193/07), quando ha rilevato la discriminazione su base etnica di una donna rom condannata alla reclusione.
Il 10 marzo 2010 la Corte ha cassato la sentenza di un giudice bulgaro che nel 2005 aveva negato la sospensione della pena ad una donna rom, malata perché quella “è una comunità per la quale la sospensione di una sentenza è una non sentenza”. I rom sono catalogati persino dai togati come delinquenti per cultura, se non per natura.
Aggressioni, omicidi, guida in stato di ubriachezza con il seguito di incidenti anche mortali da parte di rom contro nazionali hanno occupato le cronache italiane. Minore spazio, a volte totalmente assente, hanno avuto negli organi di informazione gli assalti dei nazionali ai campi. Ma contro i rom si sono verificate ripetute aggressioni fisiche e verbali, comportamenti discriminatori, anche da parte delle forze dell’ordine: queste notizie sono segnalate dalle agenzie specializzate, ma i media le trascurano.
Se i risultati raggiunti finora in termini di integrità e buona vita sono pessimi, quelli in termini di relazioni a basso conflitto non sono migliori. I giudizi negativi sui rom sono persistenti e diffusi. Nella scala di accettazione delle minoranze risultano sempre come i meno popolari. Secondo i dati di un’indagine svolta da ISPO, i rom risultano il “gruppo” meno gradito dagli italiani. Mentre tra i più graditi ci sono innanzi tutto i filippini, poi i senegalesi e a seguire, con molti punti di distacco, i cinesi. Non è il caso quindi di tirare in ballo un generico ‘razzismo’.
Nel dettaglio, l’immagine dello “zingaro” tende a coincidere con quella del ladro (92% del campione), che vive in un gruppo chiuso (87%), che sta “per propria scelta” in campi ai margini della città (83%) e che in molti casi sfrutta i minori (92%). Tuttavia, il 56% degli intervistati dichiara di non conoscere l’entità numerica dei rom residenti in Italia, mentre solo il 24% del campione sa che circa la metà, o poco più, dei rom è di cittadinanza italiana. Infine, il 65% del campione riconosce che è uno dei gruppi più emarginati. Per migliorare la situazione il 68% propone soprattutto politiche per l’inclusione attraverso l’intervento pubblico.
Da un sondaggio dell’Eurobarometro sulla discriminazione nell’Unione Europea, emerge che il 47% degli italiani intervistati si dichiara “a disagio” con L’idea di avere un rom come vicino di casa, contro una media UE del 24%. Anche una ricerca italiana del 2010, rivolta ai giovani (18-29 anni), in una scala di simpatia che va da 1 a 10 assegna ai rom il minimo del punteggio (4,1) seguiti da rumeni (5,0) e albanesi (5,2). è facile quindi ipotizzare che le posizioni di rigetto siano da addebitarsi non a pregiudizi etnici, ma ad opinioni sulla maggiore propensione dei gruppi sgraditi a commettere azioni delittuose.
La questione della criminalità di questa minoranza non può essere spazzata via da due atteggiamenti entrambi ideologici e frettolosi. Il primo rimuove il problema attribuendolo a pregiudizi o a mancanza di alternative, il secondo considera i comportamenti illegali ‘connaturati’ a questa minoranza. Sarebbe invece opportuno capire prima quanti tra loro commettono atti delittuosi, quali atti e perché. Capire se ci siano state evoluzioni negative nel tempo: sfruttamento della prostituzione, traffico di esser umani, di armi e droga. Anche se sappiamo che è la microcriminalità ad incidere di più sull’opinione pubblica, perché tocca le persone da vicino, perché è più visibile. A costruire l’immagine negativa contribuisce anche l’accattonaggio, specie se affidato a minori o a donne molto anziane. E su questo ultimo problema si è fatto poco: non basta infatti reprimerlo, se non si indica quali reali alternative possano essere offerte ai rom per ottenere un reddito da lavoro. L’accattonaggio viene infatti spesso considerato dai rom l’unica fonte di reddito onesta a loro disposizione. Sono, infatti, intrappolati nel circolo vizioso della cosiddetta ‘discriminazione statistica’: “siccome pare che in quella comunità ci sia più devianza, non mi fido e non do lavoro ad una persona di quel gruppo”, quindi gli individui di quella minoranza non hanno vie di uscita e ripiombano in comportamenti, come l’accattonaggio, fastidiosi per la maggioranza o, peggio ancora, si procurano reddito con atti delittuosi di varia gravità che danno corpo al pregiudizio statistico.
Quando si guarda all’incidenza della criminalità in questi gruppi, bisogna ricordare che, in generale, a delinquere sono soprattutto i giovani, i poco istruiti, i disoccupati. In generale i giovani maschi sono più propensi alla devianza, nel caso rom c’è però una forte incidenza tra le ragazze. è possibile che si tratti di un ulteriore sintomo di sfruttamento di genere più che di una parità male intesa. Nessuno si permetterebbe di ipotizzare che le carceri statunitensi sono piene di neri perché questa sarebbe una minoranza naturalmente o culturalmente portata delinquere, si indagano piuttosto le regioni, si studiano i contesti.
Le condizioni di disagio e di emarginazione costituiscono un terreno fertile per la devianza, occorre quindi bonificarlo per il bene di tutti, si tratta di una ferita sociale da curare. Alzare muri può servire nell’immediato ad arginare i sintomi, ad evitare che le interazioni diventino sempre più conflittuali, ma non è certo una strategia praticabile a lungo termine. Occorre generalizzare a livello nazionale le buone pratiche locali realizzate in Italia ed in Europa. La Commissione Europea ha indicato più volte, l’importanza di utilizzare le esperienze comuni, debitamente valutate, e di agire in rete. Nell’aprile 2009 è stata lanciata la Piattaforma Europea per l’inclusione dei rom, che comprende sia membri delle istituzioni europee e internazionali, sia rappresentati dei governi degli stati membri, sia esponenti della società civile. Con i fondi strutturali è stata organizzata una rete (EURoma) che ha lo scopo preciso di far circolare informazioni e buone pratiche. L’agenda delle priorità per una crescita inclusiva con l’orizzonte del 2020 include, specie nella Piattaforma di lotta alla povertà, la condizione dei Rom. E l’Unione Europea non si limita a suggerire strategie e a organizzare network, mette a disposizione fondi ad hoc, in particolare i Fondi Strutturali e quelli per lo Sviluppo Regionale. Quindi anche se si tratta spesso di interventi costosi, perché integrare costa, non aiuta mettere queste investimenti necessari in una pretestuosa alternativa rispetto a spese in favore degli italiani, perché si tratta di fondi assegnati a questo scopo, inoltre in tal modo si continua implicitamente a negare il fatto che molti rom sono italiani. Non giovano a rasserenare il clima, i manifesti elettorali caricaturali, le dichiarazioni e i discorsi pubblici di aperto indiscriminato disprezzo nei confronti della comunità rom da parte di forze politiche che ricoprono ruoli di governo a livello locale e nazionale.
Il discorso pubblico degli ultimi anni ha fortemente contribuito a peggiorare le relazioni interculturali tra maggioranza e minoranze rom. Alcune delle argomentazioni e delle raffigurazioni sulle minoranze rom sembrano riecheggiare le premesse culturali delle leggi razziali del 1938, già ricordate il 16 dicembre scorso in occasione del loro 71° anniversario nella Sala del Mappamondo della Camera dei Deputati. Lo sterminio nazista programmato riguardò anche le minoranze rom, è bene ricordarlo, non perché pensiamo che un simile dramma si possa ripetere, ma perché già la riproduzione di quegli schemi culturali è un fatto terribile in sé. In conclusione il rischio maggiore è che si allarghi il divario nelle condizioni di vita tra la maggioranza degli italiani e la minoranza rom, che questo implichi un ulteriore divario nelle visioni che hanno gli uni degli altri, con un conseguente allargamento del conflitto di cui si hanno fin d’ora troppi segnali.
Un suggerimento a basso costo che mi sento di dare consiste nell’abbassare i toni, di bandire gli hate speeches, i discorsi pubblici ispirati all’odio. Purtroppo la prospettiva di maggioranze di governo, in cui aumenti il peso di gruppi politici interessati a lucrare sul disprezzo e sul dissidio, non aprono scenari ottimistici. Un secondo ovvio consiglio consiste nel conoscere di più per agire meglio. A fare questo ci invita pure, di nuovo, la Commissione Europea. Mi sembra che per ora siano prevalenti, al contrario, indagini ideologicamente connotate. Mancano invece dati, non si conoscono per certo neppure quanti siano e chi siano i rom in Italia. L’obiettivo principale della misura d’emergenza che ha riguardato il censimento voluto dal Ministero dell’Interno nel 2008 mirava a rilevare dati e a dare un’identità alle persone rom, in particolare ai minori e agli adulti sprovvisti di carta d’identità. Non era quindi priva di logica e di utilità ma, era limitata a tre regioni, è stata sottoposta a molte critiche da parte del Parlamento Europeo e dell’OSCE sulle modalità di rilevamento, giudicate discriminatorie su base etnica e disturbanti per i minori. Inoltre e purtroppo le informazioni generate da quel censimento non sono circolate.
Si possono usare altri metodi, ma senza informazioni è difficile intervenire. Per agire attraverso un piano nazionale bisogna prima sapere quanti e chi sono realmente i membri di queste minoranze, dove vivono, cosa fanno. Il riconoscimento dei rom come minoranza storico linguistica potrebbe sgombrare il campo dalle preclusioni a raccogliere dati ‘etnici’ e costruirebbe un segnale di un generale riconoscimento di dignità alla comunità rom, un elemento utile per costruire relazioni civili.
Quanto ad altre proposte di legge oggi in campo, penso che in tutti gli ambiti e da parte di tutti coloro che vivono nel nostro paese sia giusto richiedere il rispetto delle leggi, delle norme e dei regolamenti. Ma che, contestualmente, bisogna mettere i cittadini come gli stranieri, le maggioranze come le minoranze, i ricchi e, se me lo permettete, ancor di più i poveri in condizione di rispettarle.
Aggiungo che l’integrazione dei rom non è un compito che si può svolgere solo a livello locale, ma neppure solo a livello di singolo stato. Non serve stigmatizzare le posizioni italiane e francesi se non si riconosce che sollevano un problema reale: se arrivano troppi flussi robusti e disordinati da altri stati dell’Unione, la gestione di una situazione dolorosa e colpevolmente trascurata in passato, può diventare drammaticamente insolubile. La Commissione Europea ha invitato gli stati membri ad utilizzare i fondi strutturali e quelli per lo sviluppo regionale, nelle loro varie articolazioni, per integrare i rom. Bisogna prendere questo invito sul serio, invece di continuare a lamentare vincoli di bilancio nazionali e locali. è ottima cosa che nel Piano Nazionale per l’Inclusione Sociale l’inclusione dei rom, sinti e camminanti sia stata inserita tra le sfide strategiche e gli obiettivi prioritari. è ottima cosa che si sia fatto esplicito riferimento ai fondi europei. Ma è necessario che questi fondi siano utilizzati a livello nazionale, regionale e locale con perizia, sfuggendo alla tentazione della retorica contro gli ‘zingari’ e alla pratica che ne consegue. In passato abbiamo assistito troppe volte a fondi nazionali, europei provenienti da enti pubblici, a fondi dati da aziende e da fondazioni che sono rimasti inutilizzati o utilizzati male. è quanto ha fatto notare Costel Bercus, Presidente del Roma Education Fund durante il Seminario sui rom organizzato a Roma il 16 novembre 2010 dalla Commissione Straordinaria per i Diritti Umani del Senato e da FIERI.
A livello europeo, l’Italia potrebbe avanzare una proposta su dove e come indirizzare prioritariamente i fondi. Forse per timore di mettere a rischio il principio della libera circolazione la Commissione non ha dato un’indicazione chiara su questo punto. Certo ha suggerito di favorire gli stati dove si concentrano queste minoranze e in tal modo si favorirebbero comunque i paesi di emigrazione rom. Bisognerebbe fare un passo ulteriore: vincolare una destinazione ancora più sbilanciata a sostegno dei paesi di provenienza perché adottino misure che, favorendo le condizioni di vita dei rom nei loro paesi, scoraggino l’esodo verso altri paesi europei. In termini di costi relativi sarebbero meno onerosi e consentirebbero ai molti rom che hanno abbandonato da tempo il nomadismo di restare dove già vivono. Ho sempre trovato irritante la proposta genericamente rivolta agli immigrati “aiutiamoli a stare a casa loro”, perché implica due menzogne. Gli immigrati in larghissima maggioranza vengono perché c’è bisogno di loro, le differenze di reddito pro capite, di opportunità di vita tra paesi di provenienza e il nostro non si sanano in un attimo, con la bacchetta magica degli aiuti internazionali, dei quali peraltro l’Italia è particolarmente avara. Ma siamo sicuri che questa strategia, operata a livello europeo, con fondi europei, nei confronti di minoranze svantaggiate che vivono in altri paesi membri non possa funzionare? Così non si limita la libera circolazione si favorisce la possibilità di vivere dove si è stati per generazioni. La più generosa attribuzione di fondi ai paesi di origine, ai quali spetta in primis il compito di fornire ai rom condizioni di vita decorosa, deve essere esplicitamente vincolata al rispetto dei loro diritti, al rispetto dei diritti umani di queste minoranze. Nel seminario di Roma Andrzej Mirga, senior advisor dell’Office for Democratic Institutions and Human Rights dell’OCSE, osservava che i rom provenienti dai nuovi paesi membri dell’Unione Europea non possono fare richiesta di asilo, visto che quegli Stati sono stati accettati nell’Unione perché rispondevano a criteri di osservanza dei diritti umani. Tuttavia in quei paesi sono stati oggetto di aggressioni persino mortali che non hanno risparmiato neppure bambini. La concessione di fondi agli Stati dei paesi di origine, come a quelli dei paesi di arrivo, devono essere vincolati alla tutela dei diritti fondamentali dei rom, incluso quello citato dalla Carta Europea e troppo spesso ignorato anche dei vecchi membri dell’Unione: il rispetto della dignità umana.