Di Ferruccio Pastore, pubblicato il 16 Febbraio 2011 su Affarinternazionali
Dopo le tensioni dei giorni scorsi, Italia e Commissione europea sembrano finalmente ritrovare un terreno di dialogo e collaborazione. La recente apertura della Commissaria europea agli affari interni, Cecilia MalmstrÖm, alle richieste di cooperazione e assistenza finanziaria avanzate dal governo italiano per far fronte al flusso straordinario di immigrati clandestini provenienti dalla Tunisia può avere implicazioni importanti per la politica migratoria dell’Ue. La Commissaria ha identificato una serie di misure concrete, nelL’ambito delle proprie competenze, per fornire una prima e tempestiva risposta all’emergenza, incluso l’avvio di una missione dell’Agenzia europea per il controllo delle frontiere, Frontex.
Il 14 febbraio, del resto, il ministro dell’Interno Maroni aveva precisato le richieste italiane: 100 milioni di euro subito; l’accelerazione verso un sistema di asilo comune; la trasformazione di Frontex da organo di coordinamento in agenzia operativa.
Di fronte ai convulsi sviluppi di questi giorni, non bisogna però perdere di vista le radici lontane di questa emergenza. è dalla fine degli anni Novanta che i successivi governi italiani perseguono una politica di accordi bilaterali in materia migratoria con i paesi della riva sud del Mediterraneo. Erano rimedi necessari, ma precari e parziali. Toppe su un tessuto di relazioni euro-mediterranee, che oggi svela la sua fragilità strutturale.
Nell’estate del 1998, l’accordo dell’Italia con la Tunisia era stato uno dei primi. Inaugurava un approccio sperimentale, che offriva aiuti e visti per l’immigrazione legale, in cambio di un argine poliziesco ai flussi non autorizzati e della disponibilità alla riammissione degli espulsi dall’Italia. Canali di ingresso, insomma, in cambio di barriere all’uscita.
Gestione bilaterale
Limitato inizialmente a pochi paesi vicini, snodi chiave nella geografia dei flussi irregolari, l’approccio negoziale si è progressivamente ampliato ed è diventato routine, perdendo però incisività. Nell’ultimo decreto-flussi, varato a fine 2010, sono ben 19 i paesi beneficiari di “quote privilegiate”. Si va dagli 8.000 ingressi promessi all’Egitto, ai 4.500 per marocchini e albanesi, ai 4.000 riservati a tunisini e così via, con una frammentazione e una dispersione crescente.
Quando fu varato, questo modello di gestione bilaterale rappresentava una risposta pragmatica e innovativa, che infatti ha trovato imitatori in Europa. Era comunque solo una ricetta di medio termine, che non affrontava i nodi di fondo. Invece, le autorità italiane si sono illuse che fosse una strategia risolutiva e di lungo periodo: in particolare, ci si è comportati come se i “partner” nordafricani fossero eterni, chiudendo entrambi gli occhi sui metodi con cui quei regimi ottenevano che la gioventù locale non emigrasse né si ribellasse.
Per il resto, l’Italia ha fatto finta di credere che qualche centinaio di imprese trapiantate sulla riva sud e un rivolo sempre più sottile di aiuti allo sviluppo bastassero a colmare il gap tra la crescita demografica e quella economica. Era un calcolo a dir poco ottimistico nel caso tunisino, ma clamorosamente sbagliato in quello dell’Egitto.
Segnali trascurati
Le toppe hanno retto un decennio, ma cominciano a scucirsi. Non proprio da oggi, peraltro. Malgrado la sorpresa esibita dai responsabili politici, le avvisaglie non mancavano. Gli sbarchi alle frontiere esterne dell’Unione europea, in calo dalla seconda metà del 2008, avevano toccato un minimo nel primo trimestre 2010 (3.278, secondo l’agenzia europea Frontex, a fronte di quasi undicimila migranti intercettati alle frontiere di terra, perlopiù greco-turche). Da allora, gli arrivi via mare hanno ricominciato a crescere, fino ad arrivare a 5.209 nel terzo trimestre del 2010.
A gennaio 2011, l’agenzia Ue ha messo in guardia l’Italia, in particolare, sull’impennata di sbarchi sul versante ionico, segnalando un cambiamento nella geografia dei flussi, forse collegato alla controversa “messa in sicurezza” della rotta libica.
Eppure, nei mesi scorsi, sui media italiani, di queste segnalazioni ed avvisaglie è trapelato poco. Quasi un silenzio-stampa, accompagnato da un prolungato black-out delle statistiche ufficiali.
Finché, con l’esplosione del pentolone nordafricano, far finta di niente è diventato impossibile.
Più Europa?
Dopo aver lungamente privilegiato l’approccio bilaterale, l’Italia torna dunque a invocare più Europa. E l’Europa, come abbiamo visto, risponde, Ma di quale ruolo stiamo parlando per le istituzioni europee? Il ministro dell’Interno italiano ha prospettato un Frontex rafforzato, “che gestisca direttamente i Centri di identificazione ed espulsione, che curi i rimpatri nei paesi di origine” (Maroni a La Stampa, 15 febbraio).
Se confermate, queste richieste avrebbero implicazioni di grande portata, sia per l’Italia che per l’Ue. Le propaggini più esposte del territorio europeo, come Lampedusa, potrebbero venire, almeno in parte, europeizzate, con funzionari in divisa europea a gestire le fasi acute. Al confine greco-turco, lungo il fiume Evros, cioè quello che fino a ieri era l’epicentro della “emergenza clandestini”, si sta sperimentando qualcosa di simile.
Ma è improbabile che Spagna, Malta, la stessa Italia (a mente fredda) accettino davvero una cessione di sovranità così ampia. D’altra parte, è bene evitare di farsi illusioni sui margini reali di redistribuzione degli oneri (burden sharing) che gli stati frontalieri dell’Ue potranno strappare al nucleo dei paesi continentali meno esposti: le compensazioni finanziarie già esistenti potranno forse essere rimpolpate, ma una redistribuzione fisica di eventuali rifugiati (resettlement, dicono i tecnici) appare lontana dall’agenda reale dei Ventisette.
Nella linea italiana, inoltre, affiorano contraddizioni che potrebbero di nuovo complicare il rapporto con Bruxelles: nel momento in cui il responsabile del Viminale parla della nuova struttura in corso di allestimento per “7.000 rifugiati”, si dà avvio ai respingimenti in alto mare verso le coste tunisine, sul modello libico. Se di potenziali rifugiati si tratta, occorre ammetterli sul territorio e vagliare caso per caso.
Non conviene all’Italia, meno che mai in un momento così delicato, invocare l’Europa a intermittenza. Occorre concentrarsi su poche richieste, chiare e sorrette da un consenso politico ampio. La prima di questa richieste deve riguardare qualcosa che solo l’Europa può dare: è una guida politica forte di questa preziosissima ma fragile transizione mediterranea. Per questo, l’accelerazione che la visita dell’Alto rappresentante dell’Ue Catherine Ashton a Tunisi ha impresso ai negoziati per il rinnovo degli accordi commerciali Ue-Tunisia è un segnale concreto e importante (vedi EurActiv).
Muovendo le sue leve di soft power in maniera rapida e coordinata, Bruxelles può contribuire davvero a incanalare la transizione. Ponendo così le basi di una governance della mobilità nel Mediterraneo, non più fondata su toppe ma su sinergie strutturali.