Ndack Mbaye in dialogo con Yassin Dia e Giulia Liti
Questa intervista è stata realizzata nell’ambito della rubrica Non Meno Uguale, nella quale FIERI si propone di dialogare con giovani con retroterra migratorio attivamente impegnati in progetti per l’inclusione sociale per riflettere più consapevolmente sulle discriminazioni e le loro conseguenze nell’Italia contemporanea.
Abbiamo scelto di partire dalla cittadinanza, argomento di rilievo sia nella letteratura scientifica, sia nel dibattito pubblico. In Italia, la cittadinanza è attualmente disciplinata dalla legge 5 febbraio 1992, n. 91. Essa si acquisisce in via principale iure sanguinis, per nascita da un genitore cittadino italiano. Inoltre, la cittadinanza può essere richiesta da stranieri che risiedono in Italia da almeno dieci anni e sono in possesso di determinati requisiti. I figli di immigrati, che abbiano risieduto in Italia legalmente e senza interruzioni, possono richiedere la cittadinanza al compimento dei diciotto anni. Da decenni, ormai, questa normativa è oggetto di critiche, campagne di protesta e numerosi tentativi di riforma, tutti falliti.
Ndack Mbaye è dottoranda in Scienze Giuridiche presso l’Università di Bologna. Si occupa di storia del diritto dell’Africa subsahariana (Senegal), di razzismo e cittadinanza nell’Italia contemporanea. È tra le autrici del libro Future. Il domani narrato dalle voci di oggi (2019).
YD & GL: Che cosa significa “cittadinanza” per le persone immigrate e/o con background migratorio in Italia?
NM: È bene premettere che l’ultima modifica di ampia portata alla nostra legge sulla cittadinanza è stata fatta nel 1992 per consentire alle persone espatriate dall’Italia di non perdere i loro diritti politici e civili. (In seguito sono state fatte diverse modifiche puntuali a questa norma, nonché almeno una pronuncia importante della Corte Costituzionale – ndr). Questa decisione rispondeva alla volontà di non rinunciare a un consistente patrimonio umano, data l’emorragia che, nei decenni precedenti, aveva portato molte persone a emigrare verso altri paesi europei o oltreoceano. Quando l’Italia è diventata anche un paese di immigrazione, oltre che di emigrazione, l’istituto della cittadinanza si è dovuto scontrare con un elemento di estraneità, dato dalla presenza di persone diverse dalla maggioranza della composizione sociale del luogo.
La ratio della legge, però, è rimasta la stessa. Secondo me, le fondamenta della normativa includevano, bloccare questa emorragia di sangue e evitare questo venisse “contaminato” dagli elementi di estraneità associati generalmente alle persone straniere e/o con background migratorio. Qui entra in gioco in maniera molto evidente la razzializzazione, che contribuisce ad alimentare un sistema secondo cui alcuni elementi biologici sarebbero associati a determinati valori e risorse. La cittadinanza serve a far sì che il binario biologico dell’italianità resti sempre lo stesso, nonostante le persone nere o comunque non bianche siano presenti in Italia addirittura già prima che l’Italia fosse Italia, intesa come nazione. Molte persone immigrate o con retroterra migratorio, pur contribuendo alla costruzione economica e sociale del paese, non sono considerate cittadine né giuridicamente, né a livello di sentire popolare. Questo è particolarmente evidente se pensiamo ai figli della migrazione: pur essendo nati e cresciuti in questo paese, essi vengono esclusi, non solo dall’istituto dalla cittadinanza, ma sono anche percepiti come non pienamente italiani.
YD & GL: La cittadinanza può avere significati diversi. Da un lato, esiste la cittadinanza giuridica che consente di avere tutta una serie di diritti; dall’altro esiste una cittadinanza che agisce più a livello simbolico: non basta avere una carta di identità o un passaporto italiano per essere considerati cittadini. Sulle persone immigrate e/o con background migratorio gravano rappresentazioni e attribuzioni di significato razziste e xenofobe. Puoi dirci di più?
NM: In origine la cittadinanza coincideva con la nazionalità e contribuiva a creare un senso di appartenenza allo Stato. In occidente, un processo fondamentale per la nascita dei nostri stati-nazione sta nel passaggio da regimi feudali a regimi monarchici. In questo nuovo assetto che tendeva alla centralizzazione, per garantire potere e protezione all’ascendente classe borghese, si rendeva necessario la creazione di un’ideale di appartenenza comune a una nazione nutrice di cui si è cittadini: una madrepatria, appunto. Successivamente è entrato in gioco l’elemento della diversità. Questo ha fatto viaggiare su binari diversi la cittadinanza culturale e la cittadinanza giuridica. Quando la cittadinanza culturale si scontra con i portatori di culture altre, possono emergere delle problematiche. Per esempio, i figli della migrazione potrebbero arrivare ad essere cittadini giuridici, ma non cittadini culturali. L’acceso alla cittadinanza culturale può diventare un ricatto che comporta l’abiura delle straniere per entrare dentro le coordinate dell’italianità e accedere pienamente all’istituto della cittadinanza. In particolare, con il termine abiura, mi riferisco proprio alla decisione di rinunciare ad alcuni elementi della propria cultura di origine, per essere riconosciuti come italiani. A ciò, segue spesso la tendenza ad enfatizzare alcuni tratti della cultura italiana. Il fatto che una persona di origine straniera parli un dialetto italiano o sia immerso nella cultura alta del paese, non è solamente visto come un fattore di ricchezza culturale, ma diventa anche un indicatore della sua assimilazione culturale. Per una certa parte della popolazione, bianca e spaventata dall’alterità, vedere questi tratti in una persona di origine straniera è rassicurante, perché consente di dire “è nero/è nato in un altro paese, ma ormai è come noi”.
La cittadinanza è uno dei fondamenti dello stato democratico in cui viviamo. Dopo la caduta del regime fascista si è molto insistito sul fatto che l’Italia fosse una repubblica democratica e che la cittadinanza non potesse essere revocata a nessuno. Ritengo opportuno ricordare, però, che i Decreti Sicurezza avevano inizialmente introdotto l’ipotesi di togliere la cittadinanza a chi si macchia di reati contro l’ordine pubblico. Questa possibilità non valeva per tutti, ma solo per chi ha ricevuto la cittadinanza e non è italiano ab origine, avendo un impatto negativo sulle persone migranti e sui figli della migrazione. Benché in seguito questa norma sia stata ritirata, perché incostituzionale, ritengo che sia un esempio perfetto per mostrare come la cittadinanza non sia la stessa per tutti. In questo senso, la cittadinanza stabilisce dei paletti e limiti soprattutto per chi italiano non lo è sempre stato, contribuendo a processi di esclusione. La cittadinanza non è un più diritto che viene riconosciuto a chi è detentore di uno status, ma un privilegio elargito.
YD & GL: Attraverso quali dispositivi la cittadinanza si configura come istituto escludente?
NM: Per accedere alla cittadinanza lo Stato mette in atto condotte discriminatorie a cominciare dal riconoscimento di determinati requisiti legati alla stabilità della residenza (dieci anni continuativi – ndr )e alla produzione di un reddito costante (il reddito minimo richiesto è di 8.263,31 euro per il solo richiedente – ndr ). Le possibilità di accedere a questo paese e di permanerci legalmente, rispettando tutti i requisiti richiesti per diventare cittadini, sono molto limitate, se non addirittura precluse per persone che vengono da determinate parti del mondo. Esistono specifici accordi tra lo Stato italiano e paesi terzi che controllano i flussi migratori e leggi che regolano le quote degli ingressi per motivi di lavoro, limitando le possibilità di accesso per molte persone. Lo Stato vuole garantirsi un patrimonio umano che desidera risiedere in Italia per lavorare e produrre ricchezza, ma la permanenza di queste persone è resa estremamente difficile a causa di un sistema escludente, all’interno del quale diversi attori mettono in atto pratiche discriminatorie. Possiamo prendere come esempio, il mercato immobiliare: la difficoltà di stipulare contratti di affitto regolari, impedisce alle persone di richiedere il permesso o la carta di soggiorno, nonché di presentare la richiesta della cittadinanza. Non mancano condotte simili nel mondo del lavoro. In questo modo, però, le persone immigrate e/o con retroterra migratorio diventano ricattabili dai datori di lavoro, dai padroni di casa e dallo Stesso stato. Inoltre, se guardiamo nello specifico all’esperienza delle persone razzializzate, il fatto di possedere la cittadinanza giuridica non le esclude dall’essere soggette a condotte discriminatorie, purtroppo anche poco denunciate quando subite. Il fatto di essere esposti a comportamenti razzisti, mina inoltre il diritto alla piena tutela dell’integrità fisica e giuridica. A questo proposito è bene ricordare che in Italia vige la legge Mancino, che dovrebbe consentire alle persone razzializzate di poter chiedere giustizia quando vittime di condotte razziste. Si tratta, però, di una legge di difficile applicazione e con dei limiti tecnici, che ritengo difficilmente sanabili. Infatti, il problema non è circoscritto solo a questa legge, ma a mio avviso, riguarda la struttura del nostro stato di diritto, che non facilita un accesso alla giustizia e un riconoscimento da parte del diritto uguale per tutti i soggetti che vi ci sono sottoposti.
YD &GL: Qual è il modo corretto per parlare di cittadinanza e quali sono invece le parole che partecipano al gioco dell’esclusione nella narrazione pubblica?
NM: La stessa parola “cittadinanza” diventa veicolo di discriminazione, nel momento in cui è usata in termini retorici e ideologici. Mi piacerebbe che questo concetto venisse de-romanticizzato e depotenziato dalla carica populista che oggi ha. La cittadinanza non dovrebbe essere un onore elargito da parte dello Stato italiano per meriti eccezionali. Alcune campagne politiche considerano la cittadinanza uno strumento per riconoscere una certa dignità identitaria, eludendo totalmente il fatto che questa appartenenza possa non essere interesse di tutti. Si può essere cittadini anche quando non si ha un documento scritto che lo attesti, quando esiste una partecipazione attiva al tessuto economico e sociale di questo paese. Sarebbe opportuno iniziare a chiedere alle persone immigrate o con retroterra migratorio se e in che misura interessi loro essere cittadini. Infatti, non tutte le persone hanno le stesse aspirazioni per quanto riguarda la cittadinanza italiana. L’idea dominante, purtroppo, è che per le persone di origine straniera, l’unico modo per vedersi riconoscere dignità, diritti e senso di appartenenza, sia passare attraverso l’ottenimento della cittadinanza. Non è così: lo Stato riconosce diritti civili e sociali anche a chi non è cittadino. Restano esclusi i diritti politici, che veicolano il maggior senso di appartenenza e permettono di avere un peso sull’indirizzo politico che poi condiziona le vite di tutti.
Inoltre, bisognerebbe riconoscere che essere portatori di un privilegio, come quello della cittadinanza, non dovrebbe portare necessariamente a voler estenderlo a più persone possibili. Ritengo che ci potrebbero essere altri metodi per riconoscere la fattività di essere cittadini di questo paese: per esempio, si potrebbero stabilire tramite legge ordinaria i requisiti per la partecipazione ai concorsi pubblici o al voto.