I diritti dei migranti e l’identità degli europei
Ferruccio Pastore (direttore, FIERI)
Relazione svolta al convegno su “L’Europa del futuro: spazio dei diritti o dell’esclusione?”, organizzata da ARCI e Migreurop, Genova, 23 maggio 2009.
In queste settimane di campagna elettorale, il tema dei diritti dei migranti è di scottante attualità in molti paesi europei. Proprio in momenti come questi, è utile fare un passo indietro e provare ad allargare lo sguardo. Allargare lo sguardo al passato ci può aiutare a inquadrare meglio gli sviluppi in corso, e ad attrezzarci per il futuro.
1. La sfera dei diritti: il trend espansivo
Partiamo da una scadenza importante che abbiamo davanti: tra qualche mese, c’è la speranza che l’Europa diventi, almeno sulla carta, più giusta e democratica, anche per i migranti. Se il trattato di Lisbona supera gli scogli rimasti, quello irlandese e quello ceco, in particolare, la Carta dei diritti fondamentali approvata a Nizza nel 2000, diventerà un documento vincolante. Nascerà così – sulla carta, ripeto – un’Europa dove, tra l’altro, “è proibita la tratta degli esseri umani” (art. 5), dove “ogni individuo ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare” (art. 7), dove “il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti” (art. 9). Un’Europa dove “i cittadini dei paesi terzi che sono autorizzati a lavorare nel territorio degli Stati membri hanno diritto a condizioni di lavoro equivalenti a quelle di cui godono i cittadini dell”Unione” (art. 15), dove “è garantito il diritto di asilo” (art. 18) e dove “le espulsioni collettive sono vietate”. Un’Europa, inoltre, dove “nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti” (art. 19).
Sempre sulla carta, questo è il compimento di un processo di lunga durata. Un processo che, dalla fine della seconda guerra mondiale, ha visto una straordinaria espansione della sfera dei diritti fondamentali in Europa. Per i cittadini innanzitutto, ma anche per i non cittadini, sia quelli che dal 1993 sono definiti “cittadini europei”, sia gli altri, i cittadini di paesi terzi, che siano stranieri di passaggio o immigrati. Con riferimento in particolare a questi ultimi, abbiamo assistito a un’espansione progressiva della sfera dei diritti nel corso degli ultimi 50 anni; un’espansione di cui ricordo solo qualche tappa fondamentale:
a) nel corso dei decenni, l’obbligo internazionale di protezione dei rifugiati stabilito negli anni Cinquanta si è globalizzato ed è diventato permanente, con il superamento delle varie limitazioni cronologiche e geografiche. In molti paesi europei, quell’obbligo gravante sullo stato è diventato un diritto soggettivo del rifugiato; in certi casi, come quello italiano, addirittura un diritto sancito a livello costituzionale.
b) Secondo aspetto: in Europa, da decenni, il diritto alla vita famigliare è riconosciuto in forma particolarmente ampia anche agli stranieri. E fonda una concezione del ricongiungimento famigliare degli immigrati come diritto soggettivo che contrasta, ancora una volta, con la situazione statunitense, dove sebbene il grosso dell’immigrazione avvenga per canali famigliari, l’amministrazione può opporsi discrezionalmente a una domanda di ricongiungimento, e l’attesa può comunque durare molti anni.
c) Un terzo aspetto è forse meno evidente, ma di grande importanza, non solo in chiave storica. Nelle legislazioni europee in materia di immigrazione, la discriminazione esplicita su base etnica non è più ammessa né praticata da molti decenni. Come ci ricorda in un bel libro recente uno dei grandi studiosi europei delle politiche migratorie, Patrick Weil, non è un fatto banale[1]. Specialmente se si pensa che negli Stati Uniti il principio della selezione degli immigrati su base etnica era tranquillamente ammesso fino al 1965, l’anno in cui il Congresso lo ha abolito.
d) Un quarto aspetto. In Europa, nel corso degli ultimi decenni, si è venuto configurando – prima al livello nazionale poi a quello europeo – uno status particolare per gli stranieri residenti di lungo termine. I long-term residents godono adesso di una seppur limitata libertà di circolazione intra-europea, e in molti paesi risultano di fatto (in certi casi anche di diritto) non espellibili. Inoltre, solo dal 1996 ad oggi, nell’Europa a 27 sono stati regolarizzati oltre 3,2 milioni di stranieri irregolari. E anche qui il contrasto con il resto del mondo economicamente avanzato è netto. Negli USA l’ultima regolarizzazione risale al 1986 e circa 12 milioni di persone vivono, alcuni da decenni, nell’ombra.
e) Infine, sempre parlando di condizione degli irregolari, solo in Europa esiste un riconoscimento così ampio e relativamente omogeneo di alcuni diritti fondamentali degli stranieri in condizione irregolare in ambito sanitario ed educativo. In gran parte degli altri paesi di immigrazione, le convenzioni internazionali applicabili in materia – quelle sui diritti del bambino, per esempio – non sono state ratificate o rimangono comunque inapplicate.
2. La sfera dei diritti: sintomi di contrazione
Sarebbe dunque fuorviante negare che esista una specificità europea sul terreno dei diritti e che, in un’ottica di lungo periodo, la generale espansione della sfera dei diritti fondamentali abbia riguardato anche la condizione degli stranieri. E’ altrettanto vero, però, che da alcuni anni questo trend espansivo appare rallentato o addirittura rovesciato in alcuni ambiti specifici. Anche qui, provo a elencare gli sviluppi principali.
A) Le prime contrazioni significative della sfera dei diritti fondamentali degli stranieri e dei migranti hanno riguardato la condizione dei richiedenti asilo. La riforma costituzionale tedesca del 1993 non ha toccato la sostanza specifica del diritto di asilo. Ma, agendo sulle procedure mediante i concetti di “paese di origine sicuro” e di “paese terzo sicuro”, e introducendo la possibilità della detenzione nel corso del procedimento, ha rivoluzionato la prassi dell’asilo in Europa. E facendo questo, ha innescato un’ondata di riforme emulative che presto hanno investito la quasi totalità degli stati membri dell’Unione.
B) Una seconda tendenza alla contrazione ha riguardato l’altro grande canale di ammissione rimasto aperto nelle politiche europee di immigrazione dopo la stretta dei primi anni Settanta. Mi riferisco all’immigrazione famigliare. A partire dagli anni Novanta, mentre la Corte europea dei diritti dell’uomo procedeva nell’interpretazione estensiva dell’articolo 8 della Convenzione del 1950, molti legislatori hanno introdotto modifiche restrittive. In questo caso, non solo alle procedure, ma anche alla sostanza del diritto al ricongiungimento che, per esempio, diversi stati hanno limitato ai figli minori di 16 anni. Nel caso di questa ondata di riforme, la ratio specifica era una preoccupazione, spesso dichiarata pubblicamente o addirittura rivendicata, circa la “integrabilità” degli adolescenti immigrati, e in particolare di quelli provenienti da paesi musulmani.
C) Un terzo filone di interventi legislativi restrittivi ha riguardato, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, le norme in materia di acquisizione della cittadinanza (o anche di accesso allo status di lungo-residente). Anche qui, come in tema di immigrazione famigliare, si sono moltiplicati gli stati che hanno introdotto o rinforzato i filtri di natura “culturale”, basati non solo sulla conoscenza della lingua e delle tradizioni del paese ospite, ma anche sull’accettazione di valori e principi sancita mediante giuramenti e cerimonie solenni. Abbiamo cioè assistito a un rafforzamento complessivo della dose di discrezionalità insita nei diritti europei della cittadinanza e a uno slittamento ulteriore da una concezione della cittadinanza come incentivo all’integrazione a una concezione della cittadinanza stessa come premio per una integrazione già avvenuta e certificata[2].
D) In questo panorama di controriforme del diritto degli stranieri, l’Italia occupa una posizione particolare. Per un verso, rimane uno dei paesi oggettivamente più aperti, perlomeno a certe categorie di flussi. Forse non tutti lo sanno, perché sono misure poco pubblicizzate, ma tra dicembre 2008 e marzo 2009, il governo italiano, nella persona del Presidente del Consiglio, ha emanato due decreti di pianificazione degli ingressi, che autorizzano complessivamente 230.000 ingressi di cui 80.000 stagionali e 150.000 non stagionali, la maggior parte dei quali nel settore dell’assistenza domestica e della cura alla persona. Non è un mistero, peraltro, che la maggior parte di questi ingressi saranno in realtà ingressi dalla clandestinità alla regolarità, non dall’esterno del paese. Quindi, un’ennesima regolarizzazione strisciante.
Nello stesso tempo, la maggioranza al potere sta varando un insieme molto ricco e articolato di modifiche legislative e di innovazioni amministrative, che segnano delle discontinuità più o meno profonde in almeno tre settori:
– Innanzitutto, abbiamo una linea di criminalizzazione della immigrazione irregolare, che non si manifesta solo con la creazione di un reato specifico, ma anche con il conseguente divieto di qualsiasi forma di contatto non repressivo tra le pubbliche amministrazioni e l’irregolare, e tendenzialmente anche tra la società civile e l’irregolare (l’irregolare, si badi bene: cioè non solo il clandestino, ma anche il cosiddetto overstayer).
– Seconda direttrice della controriforma italiana è la precarizzazione dello status del regolare (tassa sui permessi di soggiorno, permesso “a punti”, restrizioni in materia di acquisizione della cittadinanza per matrimonio, etc.). E’ importante sottolineare che questa linea di precarizzazione della condizione degli immigrati regolari non riguarda solo i cittadini di paesi terzi, ma anche – almeno nelle intenzioni – i cittadini comunitari, in particolare i cittadini dei nuovi paesi membri, ancora più in particolare i cittadini europei di etnia Rom.
– Terza direttrice, per fare fronte a un raddoppio delle domande di asilo nel 2008, a partire dall’inizio di maggio 2009, il governo ha deciso una radicale svolta nelle modalità di controllo e repressione degli ingressi via mare. Si tratta di un cambiamento di approccio di portata storica, perché, per la prima volta in maniera così plateale, uno Stato membro dell’Unione trascura deliberatamente i propri obblighi di protezione, anteponendo ad essi esigenze di controllo delle frontiere.
3. Il ruolo dell’Europa: progressivo o regressivo?
Nel caso delle intercettazioni in alto mare e del respingimento verso la Libia delle barche cariche di migranti, il silenzio delle istituzioni europee ha contrastato in maniera stridente con le critiche esplicite e severe provenienti dalle Nazioni Unite. Anche in questo caso, però, proviamo a non appiattirci sull’attualità e a chiederci più in generale che ruolo abbiano svolto e svolgano le istituzioni di Bruxelles in quello che abbiamo descritto come un processo storico di contrazione della sfera dei diritti degli stranieri. Si è trattato di un ruolo di contenimento di questa contrazione, oppure di copertura o addirittura di propulsione, rispetto all’ondata restrittiva in corso?
Non c’è una risposta univoca. In alcuni campi, come i diritti dei migranti comunitari, anche questa Unione europea, composta da una maggioranza di governi conservatori e “gestita” da una Commissione molto attenta a non mettersi di traverso rispetto ai voleri degli Stati, tenta di svolgere un effettivo ruolo di salvaguardia. Un esempio recente, interessante perché irrituale, è l’intervento “preventivo” con cui nell’estate 2008 la Commissione europea tentò di ottenere correzioni in un provvedimento legislativo urgente del governo italiano. Mi riferisco alla norma del c.d. “pacchetto-sicurezza”, anticipata con il decreto-legge 23 maggio 2008 n. 92 (convertito poi con legge 24 luglio 2008 n. 125), che configura come aggravante comune, da cui può derivare un aumento di pena fino a un terzo, “l’avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale”[3]. Ma gli espliciti rilievi del vicepresidente della Commissione Jacques Barrot sulla violazione del diritto comunitario derivante dalla estensione di tale aggravante ai cittadini europei non hanno sinora sortito effetti concreti e definitivi.
Un’azione forse meno visibile, ma più sistematica ed efficace, a tutela dei diritti di quella categoria privilegiata di migranti che sono gli “intra-comunitari”, è stato svolto, in questi anni, dalla Corte europea di giustizia. Tra i valori aggiunti del trattato di Lisbona vi sarebbe quello di dare maggior forza a questo organo in un ambito che sarà sempre più centrale, controverso e delicato.
A fronte dei settori in cui il ruolo della UE rimane virtuoso, esistono naturalmente esempi di segno diverso. Il bilancio dei successivi programmi pluriennali in materia di Giustizia e affari interni (il cosiddetto “Programma di Tampere”, seguito da quello de L’Aia) è deludente. Ma non solo in termini quantitativi, rispetto agli obiettivi programmati. Il bilancio è deludente soprattutto in termini qualitativi, perché – come sapete bene – molte delle direttive adottate si sono limitate a fotografare i denominatori minimi che le diverse legislazioni avevano in comune. E’ vero che di solito le direttive contengono clausole che preservano le soluzioni più favorevoli, in termini di diritti fondamentali, che preesistevano all’adozione della direttiva. Ma proprio per eludere queste tutele, si sono spesso registrate delle corse in avanti, mediante le quali gli Stati membri hanno frenato sul processo legislativo a livello comunitario per darsi tempo di approvare una riforma restrittiva a livello nazionale, prima che una direttiva intervenisse a legare le mani al legislatore nazionale. Questo è quello che è accaduto, per esempio, nel campo di ricongiungimento famigliare, dove la competenza comunitaria ha chiaramente servito gli interessi dei governi assai più di quelli delle famiglie migranti e dell’integrazione. Una dinamica analoga si è registrata con la direttiva rimpatri.
Detto questo, io penso che non si debba esagerare nel valutare l’impatto specifico delle politiche comunitarie nei singoli ambiti legislativi. Si tratta, perlopiù, di aggiustamenti di portata tutto sommato marginale. Invece, è difficile sottovalutare il peso e l’impatto della dimensione europea se consideriamo quella che è la sola vera, o comunque la più importante ed effettiva, tra le politiche migratorie comuni. Mi riferisco all’allargamento dell’Unione a est, tra il 2004 e il 2007. L’allargamento non ha solo imposto integralmente l’acquis di Schengen ai nuovi paesi membri, ma ha anche determinato indirettamente un’asimmetria fondamentale nel funzionamento del sistema migratorio europeo, che negli ultimi dieci anni è diventato sempre più aperto a Oriente e sempre più chiuso a Mezzogiorno.
L’abolizione degli obblighi di visto e poi la progressiva concessione della libertà di circolazione hanno fatto sì che il boom migratorio nell’UE degli ultimi dieci anni sia stato dominato dai flussi da est (Polonia e Romania, soprattutto), mentre i flussi dall’Africa, pur crescendo in termini assoluti, hanno perso importanza in termini relativi.
4. Scenari: Gastarbeiter postmoderni o euroassimilazionismo?
In modo sicuramente troppo sommario, ho provato a ricostruire una parabola di lunga durata. Una parabola in cui la dotazione di diritti dei nuovi arrivati nel nostro continente è tendenzialmente cresciuta dal secondo dopoguerra fino alle ondate recessive degli anni Settanta e Ottanta, e ancora per molti aspetti fino agli anni Novanta, per poi fermarsi e anzi cominciare da diversi punti di vista ad alleggerirsi e a infragilirsi.
Io credo che questo processo, sebbene spesso denunciato da pezzi, purtroppo minoritari, della società civile europea, non sia stato ancora pensato in maniera adeguata, con tutte le sue manifestazioni, le sue varianti e le sue implicazioni, pratiche e ideali.
Questa tendenza alla contrazione sistematica della sfera dei diritti fondamentali degli stranieri in Europa, se non verrà presto arginata e invertita, accrescerà ulteriormente il distacco tra l’identità ufficiale dell’Unione e la sua identità reale, quella declinata quotidianamente dalle forze politiche e sentita dagli europei. L’identità ufficiale rimane quella di un continente all’avanguardia mondiale nel livello di tutela e di rispetto dei diritti umani fondamentali. Questa è un’identità che si riflette in innumerevoli documenti solenni, che viene insegnata nelle università, che viene proclamata e vantata nelle sedi internazionali. Ma questa identità sta subendo uno svuotamento progressivo, che indebolisce l’Europa non solo nei rapporti con i paesi d’origine dei flussi migratori, privandola di credibilità e di autorevolezza, ma che la indebolisce anche dal punto di vista interno, lasciando spazio a tensioni centrifughe, a conflitti culturali, e a quella che il poeta tedesco Enzensberger ha chiamato la “guerra civile molecolare”.
Che scenari abbiamo davanti? Negli ultimi anni, le politiche migratorie europee hanno conosciuto un’evoluzione per molti aspetti paradossale. Da un punto di vista quantitativo, il fabbisogno di lavoro straniero è tornato a crescere, in alcuni paesi discretamente, in altri paesi, come quelli dell’Europa mediterranea, in maniera prepotente. Quasi tutti gli Stati membri dell’Unione, almeno dell’Unione a 15, sono tornati a politiche migratorie attive. In alcuni casi, come in Italia, Spagna, Grecia, Gran Bretagna, Irlanda, su vasta scala, anche se con modalità diverse. In altri casi, come nel caso francese e in quello tedesco, in maniera assai più cauta, selettiva e rigida. Il risultato complessivo comunque è stato un vero e proprio boom migratorio. Vi fornisco solo un dato: nell’ultimo quinquennio del secolo scorso, il saldo migratorio dell’Unione Europea a 15 era stimato in poco più di 600.000 individui all’anno. Nei cinque anni successivi, l’UE a 25 registrava una crescita netta dell’immigrazione quasi doppia, che consentiva tra l’altro uno storico sorpasso nei confronti degli USA, cioè l’altro grande bacino di immigrazione mondiale. Il trend di crescita è proseguito negli anni più recenti, con un picco nel 2003, quando il saldo migratorio dell’insieme dei 27 stati membri attuali ha superato i due milioni. Da allora, stando alle stime di Eurostat, la tendenza si è stabilizzata, ma su valori decisamente alti rispetto a un passato anche recente: tra 1,6 e 1,9 milioni di presenze straniere in più ogni anno.
Il paradosso sta nel fatto che questo boom si è prodotto mentre la disponibilità degli europei ad accogliere nuovi flussi calava. Per cercare di alleviare questa contraddizione, i governi e le istituzioni europee hanno usato due tipi di strategia: da un lato hanno battuto sul tasto della circolarità, della temporaneità, tentando di ripristinare dei modelli migratori che erano irrimediabilmente falliti due o tre decenni prima. Dall’altro lato, le classi dirigenti europee sono tornate ad insistere sull’assimilazione, sulla necessità che chi viene accolto, chi si stabilizza, chi acquista la cittadinanza si riconosca e assuma come propri alcuni tratti e valori fondamentali della società ospitante.
Tra questi due estremi, talvolta contrapposti e talvolta sovrapposti, cioè un Gastarbeitermodell di tipo post-moderno e un assimilazionismo neorepubblicano (o neoconservatore), si è sviluppato il discorso politico dominante degli ultimi anni. Entrambi questi estremi appaiono difficili da conciliare con alcuni tratti fondamentali della identità europea ufficiale, quella trasfusa nella Carta dei diritti fondamentali, per intenderci. Se questa contraddizione non verrà affrontata, lo scenario di una guerra civile molecolare europea è destinata a farsi più concreto e vicino.
[1] P. Weil, Liberté, égalité, discriminations, Gallimard, 2009.
[2] F. Pastore, La frontiera più interna. La cittadinanza come strumento di politica migratoria, Amministrazione Civile, 6/2008.
[3] G.L.Gatta, Discriminati perché clandestini, www.lavoce.info, 12 maggio 2009.