Nella crisi, i lavoratori immigrati, economicamente e politicamente deboli, patiscono più degli altri. Questo è ciò che insegna la storia delle grandi recessioni del passato, sia in Europa che in Nord America. Ed è anche quello che sta succedendo in molti paesi europei oggi. L’Italia di oggi offre un panorama diverso.
Siamo l’unico stato della UE in cui l’occupazione straniera non ha mai cessato di crescere al contrario di quella dei cittadini che ha registrato una sensibile contrazione. La crisi ha tuttavia ridotto la capacità del nostro mercato del lavoro di continuare ad impiegare crescenti flussi di offerta di forza lavoro immigrata come testimoniato dalla crescita della disoccupazione straniera.
Il quadro macro appare dunque per certi versi meno preoccupante di quello di altri paesi, anche al di là della cerchia dei BRICS: la crisi ha ridotto la capacità di assorbimento di manodopera immigrata ma non ha determinato una fuoriuscita di quella già occupata. Come mostrano Ferruccio Pastore e Claudia Villosio in un paper recente, questo giudizio complessivo è vero. Ma, a ben guardare, non del tutto confortante. Gli immigrati se la cavano complessivamente meglio dei nativi, perché sono concentrati nei lavori peggiori. Sia nel senso di lavori più duri e meno prestigiosi, ma anche meno colpiti nel nostro Paese dall’attuale ciclo economico, come quelli in agricoltura, nelle costruzioni e nei servizi alla persona. Sia nel senso dei lavori peggiori dal punto di vista contrattuale, cioè di quelli più precari e meno garantiti, che sono però anche gli unici su cui gli imprenditori investono in una fase come questa. In sintesi, insomma, quando il lavoro peggiora, chi faceva già i lavori peggiori ne risente meno. Questo è lo scomodo paradosso messo in luce dal paper di Pastore e Villosio. Su questi temi, vedi anche il recente rapporto commissionato dal ministero del Lavoro su “L’immigrazione per lavoro in Italia: evoluzione e prospettive”.