L’emergenza integrazione di Rom e Sinti: una proposta interpretativa e alcune buone pratiche

Di Giovanna Zincone, Presidente di FIERI (Aprile 2010)

Intorno alla questione della integrazione dei Rom, si sta intensificando il dibattito a livello europeo. Poche settimane fa, si è tenuto a Cordoba il Secondo Summit Europeo sulla Inclusione dei Rom. In quell’occasione, la Commissione europea ha presentato un’articolata “Comunicazione sulla “integrazione economica e sociale dei Rom in Europa”. Su questo tema, con particolare riferimento alla situazione italiana, pubblichiamo un’analisi della professoressa Giovanna Zincone, preparata per un’audizione dinnanzi alla Commissione Diritti Umani del Senato della Repubblica, nel quadro della Indagine conoscitiva sulla condizione di Rom e Sinti in Italia.

UNA PREMESSA

Cercherò di presentare una breve analisi basata su uno schema interpretativo che ho elaborato in passato per valutare le politiche di integrazione in genere e che ho utilizzato in varie ricerche. Mi pare che si possa convenire, anche rispetto alle minoranze di cui stiamo parlando, sul fatto che, se vogliamo disegnare delle ragionevoli politiche di integrazione, esse debbano porsi sostanzialmente tre obiettivi:

A) tutelare l’integrità; che esse debbano quindi sia proteggere i diritti fondamentali dei singoli individui che fanno parte dei gruppi da integrare, sia attribuire rispetto, dignità alla comunità nel suo insieme; senza ledere però l’integrità della maggioranza, di coloro che a quei gruppi non appartengono;

B) perseguire relazioni positive o almeno a basso conflitto tra minoranze e maggioranze;

C) produrre un impatto positivo in termini economici, di relazioni e di immagine a livello internazionale e quant’altro sul sistema-paese nel suo complesso.

È immediatamente evidente che, se applichiamo questa griglia interpretativa al caso rom e sinti, ci troviamo di fronte ad un drammatico fallimento e che a questo fallimento occorre porre rimedio.
Prima di passare a utilizzare la griglia che ripropongo per mettere in luce sia i fallimenti, sia alcuni esempi di buone pratiche adottate per affrontare i problemi aperti, vorrei fare una premessa, che riguarda una considerazione che, come si sarebbe detto un tempo, sta a monte. Si tratta di un’ipotesi approssimativa sulla cultura rom, che ho tratto da quanto ho potuto osservare nel breve periodo in cui mi sono occupata di questo tema come Presidente della Commissione degli immigrati. Mi riferisco ad un involucro culturale. è ovvio che si tratta di una generalizzazione che quindi non concerne tutti i singoli individui della comunità, molti dei quali hanno già abbandonato quell’involucro culturale o sono desiderosi e pronti ad abbandonarlo, ed è ovvio che le culture evolvono, in particolare se si consente loro di interagire positivamente con ambienti e stimoli esterni. Sappiamo inoltre che ci troviamo di fronte ad una realtà variegata in termini di gruppi e, nel caso di immigrati, di diverse provenienze nazionali, diverso è pure lo status giuridico (cittadini italiani, stranieri, comunitari), diverse sono anche le consuetudini abitative, consuetudini che riguardano pure la declinante propensione al nomadismo, diverse le affiliazioni religiose (cattolici, ortodossi, protestanti, musulmani). Questa varietà rende difficile sia affrontare con soluzioni standardizzate gli obiettivi che ho prima citato, ma rende anche azzardata la generalizzazione che mi appresto a fare.

Con tutti questi caveat azzardo l’ipotesi, perché mi pare utile ad indirizzare la nostra ricerca di soluzioni. Credo che ci troviamo di fronte ad una sorta di coabitazione tra culture temporalmente sfasate. Quando mi sono occupata di questo tema, mi è parso di cogliere, nella comunità rom, i tratti di una cultura premoderna dolorosamente inserita nella modernità. Mi sono sembrate premoderne le relazioni di genere, quelle tra genitori e figli, tra suocere e nuore, il carattere esteso delle famiglie, la propensione all’endogamia. Così pure la prevalente cultura orale e la conseguente trasmissione dei saperi e delle regole. Tale può apparire la riluttanza a utilizzare strumenti come la registrazione dei matrimoni, delle nascite, così come il ricorso a giurì d’onore interni alla comunità piuttosto che ai tribunali ordinari. Premoderni si possono considerare l’uso dello spazio (volere vivere all’aria aperta e senza troppe costrizioni nei movimenti) e l’uso del tempo (la difficoltà ad accettare scansioni troppo rigide). I lavori di arrotino, di calderaio, di giostraio, come quelli circensi non trovano grande spazio nelle economie e nelle attività ludiche contemporanee. Così come premoderno mi è sembrato il valutare lo status all’interno della comunità in base alla capacità di donare e di mostrare opulenza, ma anche il fastidio per lo spreco e la propensione a riutilizzare, a recuperare. Un fastidio per lo spreco accompagnato però dal non badare a spese quando si tratta di festeggiare e celebrare. Ho avuto l’impressione che noi gagè fossimo considerati ingenui schiavi del lavoro e dei suoi ritmi oppressivi, accumulatori di beni inutilizzabili, perché – per assenza di tempo libero – non siamo in grado di goderne. Perdere un po’ di questo surplus inutilizzato non dovrebbe arrecare troppo danno. Questo schizzo – lo ripeto – non riguarda il variegato universo di cui stiamo parlando, ma solo una parte che però è forse quella che pone la sfida culturale e sociale maggiore e della quale quindi è bene occuparsi, soprattutto perché richiede soluzioni non banali e forse pure perché rivolge qualche richiamo critico al nostro stile di vita. Di qui il fascino che rom e sinti esercitano (relazioni intrafamiliari a parte) sulle fasce marginali più libertarie dei nostri giovani.

Individuare soluzioni compatibili, ponti di congiunzione sia di tipo pratico sia di tipo culturale tra questa enclave e l’esterno non è facile. C’è comunque una soluzione estremamente e certamente sbagliata. Quella che pensa sia accettabile far corrispondere a questa cultura, per alcuni tratti premoderna, condizioni di vita non solo inaccettabilmente premoderne, ma aberranti: soluzioni abitative indecorose, servizi sanitari latitanti, accessi negati a beni primari come l’acqua corrente, mortalità infantile più estesa e aspettative di vita più corte anche per gli adulti, opportunità di istruzione ristrette. Ed è proprio questo che capita, come ben sapete. Le condizioni drammatiche dei rom non riguardano solo l’Italia. Si tratta di un’emergenza europea, come è stato rilevato da diverse organizzazioni internazionali (tra cui il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) e dalla stessa Commissione europea, da ultimo con la Comunicazione del 7 aprile scorso sulla integrazione sociale ed economica dei rom in Europa (COM/2010/0133 final). Ma il fatto che siamo di fronte a un problema europeo non ci assolve come paese.

ALLA RICERCA DI BUONE PRATICHE [1]

Il mancato rispetto dei diritti umani delle minoranze rom non è solo un problema italiano, tuttavia rispetto al primo obiettivo dell’integrazione, cioè la tutela dell’integrità e del benessere fisico, l’Italia è stata oggetto di specifici rilievi da parte di organismi internazionali. La relazione periodica universale all’Italia del Consiglio per i diritti umani ha rivolto anche molte osservazioni sul tema specifico dei rom e sinti. In particolare, ma non solo, per le condizioni igieniche e sanitarie dei campi, ma anche per le modalità degli sgomberi e dei censimenti, per le minori opportunità rispetto all’accesso a beni fondamentali e per atti di discriminazione. Il 10 e l’11 marzo scorso, l’Alto Commissario dell’ONU per i Diritti Umani, Navi Pillay, ha visitato il nostro Paese. Le sue dichiarazioni sono poco lusinghiere: “Sono rimasta profondamente scioccata dalle condizioni dei campi”, ha detto dopo aver visitato il campo nomadi di Via Marchetti a Roma. “Per un momento ho pensato di essere in uno dei Paesi in via di sviluppo più poveri e non in uno dei Paesi più ricchi al mondo”. Alcuni mesi prima, nell’ottobre 2008, l’Europarlamentare rom ungherese Vittoria Mohacsi in visita in Italia aveva affermato: “Ho attraversato l’Europa per analizzare le condizioni di vita dei rom e il loro grado di integrazione. Non avevo mai assistito a violazioni di diritti umani così gravi come quelle che le istituzioni italiane rivolgono alla mia gente”.

I tre obiettivi dell’integrazione hanno anche ovvie interrelazioni: una minoranza tenuta in condizioni di vita degradanti non favorisce la nostra immagine internazionale, un capitale umano esposto al degrado è un terreno fertile per attività criminali, è oggetto di disprezzo, di discriminazioni e di aggressioni, dà luogo quindi a relazioni altamente conflittuali, ed ha infine un impatto negativo sull’intero sistema in termini di costi economici (spreco di risorse umane) e di ordine pubblico.

Se ci fermiamo all’ambito del benessere fisico, delle opportunità di buona vita, i nodi da affrontare non sono solo quello abitativo e delle condizioni igieniche, c’è più in generale il nodo della salute (che ovviamente non è del tutto disgiunto dall’alloggio), così come il riconoscimento di una residenza dotata di condizioni igienico sanitarie adeguate costituisce pure la premessa per la possibilità di iscrizione all’anagrafe e di accesso ai servizi pubblici. Un alloggio precario, non collegato con mezzi pubblici, compromette anche le possibilità di lavorare, di svolgere un’attività economica e quindi di ottenere un reddito, rende difficile frequentare la scuola, che dobbiamo considerare una tappa cruciale nel generale auspicabile percorso di uscita dall’isolamento fisico e culturale di queste minoranze, quindi premessa necessaria per un’interazione normale. Noi chiediamo ai rom alcuni requisiti (come un alloggio decente) per ottenere la residenza e con essa l’accesso ai servizi sociali, però poi non li mettiamo in condizione di procurarsi quel requisito. Ad esempio, le scarse case popolari si danno prioritariamente agli sfrattati e loro non essendo affittuari non sono sfrattabili. Il piano nazionale di edilizia abitativa prevede il requisito di 10 anni di residenza in Italia e 5 nella regione, ed alcune regioni hanno introdotto da tempo il criterio degli anni di residenza per l’accesso all’edilizia sociale allo scopo di tutelare gli autoctoni. Più in generale rom e sinti hanno poche opportunità di avere abitazioni in regola. Il Pacchetto Sicurezza ha reso questa condizione e più stringente rispetto all’accesso alla residenza. In particolare questo vale per i rom stranieri: è difficile per loro ottenere la residenza sia per questo motivo sia perché non hanno facile accesso ad un’occupazione e quindi ad un reddito. Ma di questo specifico problema è meglio trattare in seguito.

LE CONDIZIONI ABITATIVE

Sono quindi da considerare una premessa fondamentale per l’obiettivo ‘integrità’ delle minoranze in questione. Ma lo sono anche per l’integrità della maggioranza se accettiamo l’ipotesi che il degrado favorisca comportamenti devianti e criminali. Per affrontare il problema, visto che abbiamo descritto il gruppo di cui ci occupiamo come un universo composito bisogna essere capaci di dare risposte differenziate.

Prevedere l’uso di diversi strumenti di azione, come l’inserimento in case di edilizia residenziale pubblica (ERP); l’autocostruzione e l’autorecupero; e le aree attrezzate per la residenza e il transito. Per capire le esigenze occorre incoraggiare i rom a partecipare ai processi decisionali in modo che possano fornire agli amministratori locali utili input. Occorre pure incoraggiare pariteticamente la partecipazione dei consigli di quartiere, utilizzare insomma i classici meccanismi dei sistemi decisionali problem solving che si adottano in situazioni di attuale o potenziale conflitto. Evitare sgombri senza preavviso e/o con scarse o inadeguate alternative a, come alcuni sostengono sia avvenuto nel caso di via Barzaghi a Milano o di Centocelle o Casilino 900 a Roma. Certo bisogna usare cautela nel valutare negativamente le operazioni di smantellamento dei campi, perché sono operazioni oggettivamente difficili sotto molti aspetti (resistenza di una parte degli occupanti a sradicarsi, resistenza degli abitanti dei quartieri dove dovrebbero sorgere nuovi insediamenti). Bisognerebbe fare interventi integrati che riguardassero complessivamente la qualità della vita (tutela delle unità familiari estese, trasporti, accesso alle scuole). Si tratta di soluzioni che comportano alti costi economici e di mediazione sociale e politica. Facciamo, comunque, qualche esempio di strategie possibili.

Alloggi di edilizia residenziale pubblica (ERP) – come testimonia il Piano d’azione straordinaria per il superamento delle strutture d’emergenza portato avanti del Comune di Bologna assieme alla Regione Emilia-Romagna, la Prefettura e la Questura. La stipula di contratti di sublocazione tra agenzie di intermediazione mobiliare e famiglie rom beneficiarie del progetto prevede che l’amministrazione paghi la metà del canone d’affitto per quattro anni, al termine dei quali le famiglie stipulano un altro contratto sostenendo l’intero costo dell’affitto. Tra il 2007 e il 2008 quasi 500 persone sono state inserite in appartamenti, circa la metà degli occupanti sono minori.

Sono strumenti interessanti anche l’autocostruzione e l’autorecupero, usati nel caso del Progetto Dado di Settimo Torinese, dove nel 2007 rom romeni assieme ad altri cittadini stranieri hanno contribuito alla costruzione della comunità dove ora abitano, e dove possono risiedere per tre anni in vista di un alloggio definitivo. è una comunità perfettamente integrata nel tessuto sociale locale e gestita da un’associazione locale.

Vi è poi l’opzione di allestire aree attrezzate per la residenza e il transito in luoghi non isolati e integrate nel tessuto urbano, come nel caso delle microaree della provincia di Modena, dove nel 2006 il consiglio comunale ha ordinato e ottenuto la chiusura del campo nomadi di Baccelliera, e la costruzione di microaree in zone non isolate dove vivono sinti italiani, che pagano le utenze regolarmente.

è evidente però che non solo le diverse esigenze delle comunità chiedono risposte diverse; anche la diversità dei contesti (città grandi rispetto a medie o piccole), gli atteggiamenti dei residenti limitrofi ed altro contano nel condizionare le soluzioni. Contemperare esigenze talora configgenti, non è un’operazione politicamente facile, ma imboccare, da una parte, frettolose scorciatoie o, dall’altra, retoriche di rifiuto a priori di qualunque soluzione appena sub ottimale non aiuta. Certo le soluzioni dovrebbero tener conto della necessità prioritaria che bambini e ragazzi possano frequentare la scuola. Per certi versi, pare che proprio la scuokla sia l’ambito in cui si registrano i maggiori passi avanti; ma non ne sappiamo abbastanza. La mancanza di rilevazioni condotte con cura si fa sentire e produce risultati contraddittori: come si concilia la tesi di una crescente frequenza scolastica con quella – da alcuni sostenuta – di una perdurante e preponderante propensione al nomadismo?

LA SCUOLA.

L’utilità di coinvolgere gli interessati si è dimostrata particolarmente importante in questo ambito. Le famiglie rom a volte resistono a mandare i figli a scuola, sia perché considerano inutile un’istruzione che poi non produce occupazione e reddito, sia perché la temono portatrice di valori antitetici destabilizzanti della loro autorità. Le famiglie italiane a loro volta resistono alla presenza di questa come di altre minoranze perché temono lo scadimento della didattica. Per questo ed altri motivi si rileva una maggiore propensione dei bambini e ragazzi rom e sinti all’elusione. Tra i motivi di ritardi ed elusioni c’è la difficoltà a fare i compiti a casa, di qui l’utilità di dopo scuola mirati. Ma c’è anche il timore fondato di essere oggetto di mobbing.

In questo ambito più che in altre situazioni è cruciale accettare la ricetta del filosofo canadese, Charles Taylor. Non si possono privare gli individui di un elemento essenziale per il loro di benessere, che consiste nel ‘riconoscimento’ di dignità alla loro comunità di appartenenza. Vengono posti in condizione di terribile inferiorità, se – come osserva la nostra filosofa politica Elisabetta Galeotti – sono costretti a vergognarsi di apparire in pubblico per quello che sono, di rivelare la propria appartenenza comunitaria. La ricetta è eticamente ancora più cogente quando si parla di bambini, ma non si può applicare solo a loro, non si può applicare solo nella scuola, se vogliamo che funzioni. Un conto è disapprovare alcune prassi, reprimere comportamenti delittuosi, altro conto è esternare continue espressioni di disprezzo per la comunità nel suo insieme. Ma torniamo alle azioni concrete.

I programmi rivolti a limitare l’elusione scolastica di alunne e alunni rom e sinti si avvalgono in larga misura di attori del terzo settore impegnati nella scuola. Facciamo anche qui qualche esempio di buone pratiche.

La mediazione tra famiglie e scuola è uno degli ingredienti fondamentali per questo tipo di interventi. La Caritas ambrosiana a Milano porta avanti progetti di inserimento scolastico per gli abitanti del campo sito in via Novara. I progetti includono: mediazione tra famiglia e scuola; accompagnamento culturale, dando ai ragazzi strumenti di identificazione nella propria cultura e consapevolezza della propria specificità; corsi di alfabetizzazione per le donne adulte al quale si sono affiancati laboratori di cucina e di piccola sartoria. Le donne, infatti, vivono in quella comunità milanese condizioni di particolare isolamento e analfabetismo. Integrare le madri è un passaggio per integrare i figli. Più in generale, le donne rom si stanno organizzando (vedi il caso di ‘Idea Rom’ a Torino, che ha ricevuto una targa del Presidente della Repubblica) e su loro si deve puntare, la loro emancipazione è la chiave che consentirebbe alla comunità di aprirsi.

Il coinvolgimento diretto dei bambini nelle attività didattiche è un secondo ingrediente importante per la riuscita di interventi rivolti all’inserimento scolastico, perché è un segnale di riconoscimento di dignità e competenza. Un esempio relativo al coinvolgimento degli alunni è il workshop di fotografia organizzato in una scuola media di Torino da un’associazione locale. Si tratta di un progetto accompagnato dal centro di ricerca FIERI, nell’ambito di un più vasto programma di importazione e adattamento di buone pratiche a livello europeo. In questo caso, riprendendo un’esperienza di Budapest, alcuni alunni rom hanno documentato la propria scuola attraverso fotografie, con il duplice obiettivo di prevenire la loro elusione scolastica e di migliorare la conoscenza degli alunni rom da parte degli altri alunni.

Per favorire l’interazione si dovrebbero estendere le pratiche di co-tutoring, cioè di accompagnamento nello svolgimento dei compiti a casa e nel superamento di difficoltà anche psicologiche ad opera di compagni di scuola più grandi e competenti.

IL LAVORO. Sono soprattutto le borse-lavoro e i progetti di corsi di formazione professionale gli strumenti che negli ultimi anni sono stati utilizzati per cercare di arrivare all’inserimento lavorativo di rom e sinti. Se accettiamo l’ipotesi iniziale di una specificità culturale, almeno per coloro che sono legati alla cultura tradizionale occorrerebbe (come in alcuni situazioni è stato fatto) facilitare l’accesso a lavori anche stagionali e che possono svolgersi in parte all’aperto: edilizia, agricoltura, intrattenimento in occasione di cerimonie, partecipazione a mercati, attività di riciclo.

Il finanziamento europeo Equal – iniziativa del Fondo Sociale Europeo – ha contribuito notevolmente alla messa in opera di progetti rivolti all’occupazione dei rom. Per esempio, a Torino Equal è stato uno dei maggiori finanziatori del progetto “Rom cittadini d’Europa”, conclusosi nel 2007 e gestito dall’amministrazione comunale assieme a diverse realtà del terzo settore, che ha permesso a 52 persone di avere una borsa-lavoro per un percorso di lavoro subordinato e a 2 persone di avere una borsa lavoro per l’inserimento in lavoro autonomo.

Attraverso percorsi di formazione professionale, l’Opera Nomadi di Milano ha promosso l’inserimento lavorativo di oltre venti mediatrici culturali rom e sinte in scuole e altre strutture educative. La formazione si avvale di facilitatori e mira a valorizzare e al contempo rendere ‘comunicabile’ il patrimonio culturale rom in vista dell’integrazione scolastica di alunne e alunni rom e sinti.

Un altro esempio simile è il laboratorio Kimeta nel quartiere dell’Isolotto a Firenze, un laboratorio di sartoria messo in piedi da donne rom dopo un corso di formazione professionale.

Quanto al lavoro autonomo, alcuni comuni hanno concesso licenze per la vendita di abiti usati nei mercati rionali. Lo stesso vale per attività di riciclo di metallo controllate, ad evitare che siano esito di furti o che generino esalazioni tossiche.

LA SALUTE.

Le condizioni igienico-sanitarie, nelle quali molti rom e sinti vivono, specialmente quelle che caratterizzano gli insediamenti di fortuna, sono troppo spesso precarie. Inoltre, recenti ricerche dimostrano che le rappresentazioni di senso comune tendono a configurare i rom come persone che “per cultura” sarebbero inclini ad accettare tali condizioni, cosa che rende particolarmente difficile la messa in campo di programmi volti ad avvicinarli alle strutture sanitarie. Purtroppo, si osserva che sono state messe in opera poche iniziative, a parte la valida opera delle strutture sanitarie delle Caritas.

La campagna per migliorare l’accesso dei rom ai servizi sanitari è stata condotta a Roma nel corso di due settimane nel 2006 da Laziosanità – Agenzia di Sanità Pubblica, assieme alla Caritas Diocesana. La campagna è seguita alla vaccinazione dei bambini che non erano mai stati vaccinati, riducendoli dal 40% al 9%. Le attività della campagna si sono soprattutto concentrate sulle informazioni di base sull’uso più appropriato dei servizi sanitari pubblici, sulla cura delle malattie infettive (offrendo esami del sangue e della pressione sanguigna gratuiti), e tre giorni di introduzione per il personale medico del servizio sanitario alla medicina interculturale. 143 operatori sanitari sono stati impiegati, e 1970 persone rom coinvolte come beneficiari. Di queste solo il 30%, è stato raggiunto direttamente dall’attività, la strategia consisteva nel raggiungere un componente per famiglia, preferibilmente donne tra i 15 e i 39 anni, perché sono loro addette alle funzioni di cura in famiglia.

INSERIMENTO ANAGRAFICO

Tra i rom che vivono in Italia, anche tra i molti nati nel Paese, l’invisibilità anagrafica è un fenomeno largamente diffuso. L’obiettivo principale della misura d’emergenza di censimento promossa dal Ministero dell’Interno nel 2008 mirava a dare un’identità alle persone rom, in particolare ai minori, e agli adulti sprovvisti di carta di identità. Ma – come sapete – era limitata a tre regioni ed è stata sottoposta a molte critiche da parte del Parlamento Europeo e dell’OSCE sulle modalità di rilevamento, giudicate discriminatorie su base etnica.

Provvedere alla raccolta dei dati necessari dovrebbe essere obiettivo primario, perché senza un’identità anagrafica l’accesso ai servizi di welfare e al mercato del lavoro risulta impossibile. Ma per ottenere l’inserimento anagrafico si deve e prima avere una residenza. Citiamo a questo proposito una duplice buona pratica.

Il comune di Firenze ha attuato e sostenuto i progetti regionali di accompagnamento all’inserimento delle famiglie in alloggi di edilizia residenziale pubblica e ha dato la residenza agli abitanti del campo nomadi dell’Olmatello, il primo campo costruito alla fine degli anni 1980. Ma la mossa più innovativa è stata l’attribuzione agli abitanti del secondo campo (Poderaccio) della residenza in una via adiacente. Questo ha permesso agli abitanti del Poderaccio di accedere ai servizi di base, di mandare regolarmente i bambini a scuola, e in generale di godere di elementari diritti sociali.

PREGIUDIZI E POSTGIUDIZI.

Le misure e le iniziative che abbiamo elencato prima ci dicono che la società civile e le amministrazioni locali hanno fatto qualcosa, a volte anche molto, per permettere una vita dignitosa alle popolazioni rom e sinte nel nostra Paese. Ma i molti piccoli buoni risultati di integrazione sociale, in assenza di un piano nazionale, rischiano di essere diffusi in modo poco omogeneo, di dipendere dal personale politico amministrativo di turno, e quindi di risultare non risolutivi di una situazione di emarginazione sociale profonda e vasta. In altre parole, esse cercano di ovviare su scala locale a un problema che interessa il territorio nazionale, lasciando alle amministrazioni regionali e comunali il ruolo spesso ingrato di regolare quello che non viene ancora regolato adeguatamente a livello centrale.

Inoltre, tali iniziative locali vengono spesso ostacolate dall’opinione pubblica che esprime malumori diffusi quando si tratta di aiutare ‘zingari’, percepiti come un fattore di rischio per il proprio benessere. La crisi economica attuale ha rafforzato tali malumori e può consolidare opinioni pericolose che già si esprimono in sedi insospettabili. Una recente sentenza del tribunale dei minori di Napoli ne dà un segnale. Il giudice, condannando una ragazzina rom di 15 anni in primo grado e in appello a un anno e mezzo di reclusione, adduceva le seguenti motivazioni: “Le conclusioni indicate sono sostanzialmente confermate dalla relazione depositata in atti dalla quale, a prescindere dalle cause, emerge che l’appellante è pienamente inserita negli schemi tipici della cultura rom. Ed è proprio l’essere assolutamente integrata in quegli schemi di vita che rende, in uno alla mancanza di concreti processi di analisi dei propri vissuti, concreto il pericolo di recidiva.” E più oltre: “Sia il collocamento in comunità che la permanenza in casa risultano infatti misure inadeguate anche in considerazione della citata adesione agli schemi di vita rom che per comune esperienza determinano nei loro aderenti il mancato rispetto delle regole”. Si tratta di un giudizio che contrasta con la linea ancora di recente ribadita dalla Corte Europea di Giustizia nel caso Paraskeva Todorova vs. Bulgaria (Application no. 37193/07), dove si condanna la discriminazione su base etnica di una donna rom condannata alla reclusione.

Il 10 marzo 2010 la Corte ha cassato la sentenza di un giudice bulgaro che nel 2005 aveva negato la sospensione della pena ad una donna rom, malata perché quella è una comunità “for whom a suspended sentence is not a sentence” .

LE INTERAZIONI CONFLITTUALI.

Le aggressioni da parte di rom contro nazionali hanno occupato le cronache, minore spazio (ma non nullo) hanno avuto anche gli assalti ai campi. Contro i rom si riportano anche diffuse aggressioni fisiche e verbali. Comportamenti discriminatori, pure da parte delle forze dell’ordine, sono segnalati. Insomma, se i risultati in termini di integrità e buona vita sono pessimi, quelli in termini di relazioni non sono migliori.

I giudizi negativi anti-rom sono persistenti e diffusi. Nella scala di accettazione delle minoranze risultano sempre i meno popolari. Secondo i dati di un’indagine svolta da ISPO , rom e sinti risultano il “gruppo” meno gradito agli italiani. Mentre tra i più graditi ci sono innanzitutto i filippini, poi i senegalesi e a seguire, con molti punti di distacco, i cinesi. Non è il caso quindi di tirare in ballo un generico ‘razzismo’.

Nel dettaglio, l’immagine dello “zingaro” tende a coincidere con quella del ladro (92% del campione), che vive in un gruppo chiuso (87%), che sta “per propria scelta” in campi ai margini della città (83%) e che in molti casi sfrutta i minori (92%). Tuttavia, il 56% degli intervistati dichiara di non conoscere l’entità numerica dei rom residenti in Italia, mentre solo il 24% del campione sa che circa la metà, o poco più, dei rom è di cittadinanza italiana. Infine, il 65% del campione riconosce che è uno dei gruppi più emarginati. Per migliorare la situazione il 68% propone soprattutto politiche per l’inclusione e di intervento pubblico.

Da un sondaggio dell’Eurobarometro sulla discriminazione nell’Unione Europea, emerge che il 47% degli italiani intervistati si dichiara “a disagio” con L’idea di avere un Rom come vicino di casa, contro una media Ue del 24%. Anche una ricerca del 2010 mirata sui giovani (18-29 anni), in una scala di simpatia che va da 1 a 10, assegna a rom e sinti il minimo del punteggio (4,1) seguiti da rumeni (5,0) e albanesi (5,2) . è facile dedurre che le posizioni di rigetto siano da addebitarsi ad un giudizio di maggiore propensione a commettere azioni delittuose.

Il problema dalla criminalità di questa minoranza non può essere spazzato via da due atteggiamenti entrambi ideologici e frettolosi. Il primo che rimuove il problema attribuendolo a pregiudizi contro questa minoranza, il secondo che considera alcuni comportamenti ontologicamente ‘connaturati’ a questa minoranza. Sarebbe invece opportuno capire prima quanti tra loro commettono atti delittuosi, quali atti e perché. Capire se ci siano state anche evoluzioni negative nel tempo (sfruttamento della prostituzione, traffico di armi e droga), pur essendo consapevoli che è la micro-criminalità quella che incide di più, perché tocca da vicino ed è più visibile. All’immagine negativa contribuisce anche l’accattonaggio, specie se affidato a minori o a donne molto anziane. Occorre però chiedersi quali alternative reali di ottenere un reddito vengano offerte ai rom.

Bisogna inoltre ricordare che, in generale, chi delinque è soprattutto giovane, poco istruito e senza occupazione. Quindi le condizioni di disagio ed emarginazione costituiscono un terreno che bisogna bonificare. Alzare muri può servire nell’immediato ad arginare i sintomi ed evitare che le interazioni diventino sempre più conflittuali, ma per colpire alle radici serve altro: un piano nazionale che generalizzi le buone pratiche, che sono ovviamente molto più numerose di quelle citate in queste pagine. Certo – come ho già osservato – si tratta di interventi costosi, integrare costa. D’altra parte, manifesti, dichiarazioni, discorsi pubblici di aperto indiscriminato disprezzo nei confronti delle comunità rom e sinti non aiutano. E non aiuta denunciare le spese che si fanno per integrare queste comunità, metterle in competizione con altre spese necessarie a favore di italiani appartenenti alla maggioranza.

Il discorso pubblico degli ultimi anni ha fortemente contribuito a peggiorare le relazioni interculturali tra maggioranza e rom e sinti. Alcuni delle argomentazioni e delle raffigurazioni sulle minoranze rom e sinti sembrano riecheggiare le premesse culturali delle leggi razziali del 1938 già ricordate il 16 dicembre scorso in occasione del loro 71° anniversario nella Sala del Mappamondo della Camera dei Deputati. Lo sterminio nazista programmato riguardò anche le minoranze rom, è bene ricordarlo, non perché pensiamo che un simile dramma si possa riprodurre, ma perché già la riproduzione di quegli schemi culturali è una cosa terribile in sé.

In conclusione:

Il rischio maggiore è che si allarghi il divario nelle condizioni di vita tra maggioranza e minoranza rom e sinti, che questo implichi un ulteriore divario nelle visioni che hanno gli uni degli altri, con un conseguente allargamento del conflitto di cui si hanno fin troppi segnali.

Il principale suggerimento che mi sento di dare è dunque quello di non continuare ad alimentare il conflitto.

Un secondo ovvio consiglio consiste nel conoscere di più per agire meglio. Come ho detto all’inizio la mia competenza è limitata: non ho mai fatto ricerche sul tema e non conosco a sufficienza la letteratura scientifica al riguardo. Mi sembra però che ci siano prevalentemente indagini caratterizzate da eccessivi accenti ideologici. Manca persino un vero censimento.

Anche in tema di criminalità, che parrebbe il maggior e giustificato elemento di allarme sociale, non abbiamo dati certi che invece aiuterebbero a capire quanti delinquono, come e perché.

Il riconoscimento come minoranza storico linguistica potrebbe sgombrare il campo dalle preclusioni a raccogliere dati ‘etnici’. Si tratta in generale di dati necessari. Infatti, per agire attraverso un piano nazionale, bisogna prima sapere quanti e chi sono realmente i membri di queste minoranze, dove vivono, cosa fanno.

Il riconoscimento costruirebbe inoltre quella attribuzione di dignità pubblica alla comunità che sta alla base di qualunque relazione civile.

Quanto ad altre proposte di legge oggi in campo, penso che in tutti gli ambiti e da tutti coloro che vivono nel nostro paese sia giusto richiedere il rispetto delle leggi, delle norme e dei regolamenti. Ma che, contestualmente, bisogna mettere i cittadini come gli stranieri, le maggioranze come le minoranze, i ricchi e, se me lo permettete, ancor di più i poveri in condizione di rispettarle.