L’immigrazione in Svezia: tra aperture e fallimenti

di Monica Quirico

La sera del 19 maggio 2013 a Husby, un sobborgo a nord di Stoccolma con circa 12.000 abitanti (di cui l’85% di origine straniera, fra prima e seconda generazione), gruppi di giovani immigrati (almeno duecento) bruciano veicoli e cassonetti e danneggiano diversi negozi. A scatenare i disordini (che proseguono per altre cinque notti, coinvolgendo anche comuni di altre regioni della Svezia), è un episodio che risale ad alcuni giorni prima: un uomo di sessantanove anni reagisce ai poliziotti che hanno fatto irruzione nel suo appartamento sfoderando un machete; la polizia spara, uccidendolo.

Quando, la settimana seguente, si riunisce nelle strade di Husby una folla che protesta contro l’accaduto, la polizia risponde colpendo i manifestanti con i manganelli, dopo averli bloccati sui due lati della strada, e sguinzagliando i cani. Questa almeno è la ricostruzione dell’associazione “Megafon”, che condanna la brutalità della polizia, cui attribuisce la sfiducia degli abitanti di Husby verso le autorità.

“Megafon”, a cui i media hanno dedicato ampio spazio (in qualche caso rivolgendole pesanti accuse [1], in altri additandola come artefice di un nuovo capitolo nella storia della politica locale [2]), punta ad aggregare i giovani dei sobborghi [3] “per costruire una società giusta, dove tutti abbiano pari opportunità e dove sia il popolo a decidere sulla politica, e non viceversa”. Le misure che l’associazione invoca sono: maggiori investimenti nei servizi sociali erogati nei centri come Husby, lotta alla disoccupazione e un sistema scolastico che non discrimini i giovani dei sobborghi.

Le crepe del modello

Agli avvenimenti stoccolmesi la stampa internazionale, che non perde occasione per cogliere in fallo l’invidiato “modello svedese” [4], ha dedicato grande attenzione. Molti hanno posto al centro dell’analisi l’emarginazione economica e la segregazione residenziale che affliggono gli immigrati in Svezia. “The Guardian”, ad esempio, ha invitato il governo svedese di centro-destra a non inseguire il partito xenofobo dei “Democratici di Svezia”, entrato in parlamento nel 2010 e in ascesa nei sondaggi (le prossime elezioni politiche sono nel 2014), ma a interrogarsi piuttosto sul perché i rapporti fra immigrati e polizia si siano deteriorati a tal punto, e sulle conseguenze di una diseguaglianza che sta crescendo in Svezia più velocemente che in qualsiasi altro paese sviluppato (dati OCSE) [5].

“El Pais” ha deplorato il comportamento del primo ministro Fredrik Reinfeldt (in carica dal 2006), il quale, nel corso della conferenza stampa tenuta il 21 maggio, ha liquidato i giovani coinvolti nei disordini come violenti e null’altro, rifiutandosi di discutere dei problemi dei sobborghi [6]. Un’uscita, quella di Reinfeldt, cui il leader dell’opposizione in Svezia, il socialdemocratico Stefan Löfven, pur nella comune condanna degli episodi di violenza, ha replicato ricordando le statistiche di Husby: il 38% dei giovani fra i 20 e i 25 anni non studia né lavora; completa la scuola dell’obbligo il 50% dei ragazzi, contro il 90% del comune di Stoccolma. Löfven ha esortato pertanto la classe politica a riappropriarsi del suo ruolo-guida, mettendo in campo misure contro la disoccupazione e l’abbandono scolastico, per evitare che le diseguaglianze contro cui anche l’OCSE mette in guardia si aggravino ulteriormente [7].

Gli intellettuali e i media svedesi si sono divisi tra quelli che, un po’ sbrigativamente, hanno liquidato l’accaduto come una manifestazione di violenza gratuita (sia pure propiziata da condizioni socio-economiche oggettivamente difficili) e chi invece ha puntato il dito contro il fallimento delle politiche di accoglienza – quando non, più in generale, delle politiche sociali.

Tra i primi, il controverso criminologo Jerzy Sarnecki, che ha attribuito il comportamento violento dei giovani immigrati a “fattori genetici e sociali”, ossia la predisposizione dei giovani a comportamenti criminali [sic], a maggior ragione in presenza di un senso di irrilevanza sociale. Più che dalla volontà di protestare, i giovani di Husby sarebbero mossi dal desiderio di ingaggiare battaglia con la polizia [8]. Quest’ultima peraltro è stata duramente contestata da più parti, non solo per l’uso di manganelli e bastoni, ma anche per l’abitudine di rivolgersi abitualmente agli immigrati con termini razzisti come “scimmie”.

Tra le reazioni più meditate, quella del quotidiano conservatore “Svenska Dagbladet”, che ha ospitato l’analisi di tre studiosi dell’Università di Londra, i sociologi Les Back e Paul Gilroy e lo studioso di geografia culturale Mustafa Dikec, che, per inciso, chiedono una commissione d’inchiesta sui fatti di Husby, sul modello di quella costituita nel 2001 dopo i disordini di Göteborg. Gli scontri tra immigrati e polizia del maggio 2013 non sono stati certo i primi, in Svezia: il quartiere Rosengård di Malmö, dove è cresciuto Zlatan Ibrahimović, è lì a ricordarcelo.

Back, Gilroy e Dikec richiamano l’attenzione sull’impressionante segregazione residenziale (addotta come causa principale dei disordini, insieme alla disoccupazione, anche da molti studiosi svedesi [9]), frutto dell’indirizzo impresso alle politiche di integrazione [10] e tale da configurare i sobborghi ad alta densità immigrata come delle vere e proprie città separate, da cui lo Stato si ritira, per non fare i conti con l’esito drammatico dei tagli ai servizi pubblici e della disoccupazione. I tre studiosi londinesi sottolineano poi come lo smantellamento dello Stato sociale sia andato di pari passo con la crescente presenza e visibilità dello Stato di polizia, nelle aree urbane problematiche; per tacere della consolidata “discriminazione strutturale” (che rende molto più difficile per chi si chiama Mohammed trovare un’occupazione, rispetto a chi si chiama Erik) [11].

La partecipazione al mercato del lavoro degli immigrati è la più bassa fra i paesi industrializzati, ha rivelato di recente il think tank liberale Migro: il tasso di occupazione fra le persone di origine straniera è del 57.3%, contro il 67.2% degli autoctoni; il tasso di disoccupazione è rispettivamente del 15.9% contro il 6.4% [12].

Tra liberalizzazione e repressione

Quello del limitato accesso al mercato del lavoro degli immigrati (con un tasso di disoccupazione complessivo che raggiunge l’8.2% [13]) è un argomento che viene utilizzato spesso dalle organizzazioni sindacali e politiche contrarie alla riforma dell’immigrazione per lavoro approvata nel 2008 dal governo di centrodestra e entrata in vigore l’anno seguente.

Ricorrenti sono state le polemiche della Confederazione generale del lavoro, la LO (Landsorganisationen), storico partner del partito socialdemocratico, verso una normativa che rende più facile, per gli imprenditori, assumere lavoratori stranieri (tanto high- quanto low-skilled), ma al prezzo di rinunciare a un controllo statale sull’effettiva adempienza, da parte del datore di lavoro, dell’offerta di lavoro sottoposta, per approvazione, all’Agenzia per l’immigrazione. Molti sono i casi, in settori come quello alberghiero, edile, della ristorazione e dei servizi per la casa e la famiglia, di lavoratori che arrivano in Svezia con la promessa di un’occupazione che rispetta gli standard del contratto collettivo nazionale (che in una paese in cui il tasso di sindacalizzazione supera il 70% sono piuttosto “esigenti”) per ritrovarsi poi con condizioni di lavoro decisamente inferiori sia come monte-ore sia come salario [14].

Senza rinnegare la tradizione di apertura della Svezia, e anzi riconoscendo che il paese ha bisogno di forza-lavoro, tanto domestica quanto straniera, il sindacato chiede regole più stringenti per evitare il social dumping e lo sfruttamento della manodopera [15]. La LO contesta la definizione di “carenza di forza-lavoro”: un concetto che spesso maschera la dura realtà di settori in cui le condizioni offerte ai lavoratori sono così scadenti da essere rifiutate da chiunque abbia consapevolezza di quelli che sono gli standard “normali”; ecco allora la convenienza, per l’imprenditore, di assumere lavoratori stranieri, disposti ad accettare condizioni considerate dagli autoctoni inaccettabili [16].

Tra le molte promesse non mantenute dalla nuova normativa sull’immigrazione per lavoro (tra cui quella di non rappresentare una soluzione al calo demografico), la LO colloca l’impegno a ridurre il numero degli immigrati irregolari [17].

Quest’ultimo problema ha recentemente catalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica a causa del REVA [18]: un’ordinanza varata dal governo nel 2009, nel contesto di una politica di asilo sempre più restrittiva, che conferisce all’Agenzia responsabile per l’immigrazione (Migrationsverket), alla polizia e all’ente preposto alle misure di detenzione e a quelle alternative al carcere (Kriminalvården) il compito di rendere più efficace la lotta all’immigrazione irregolare, incrementando il numero di espulsioni dei soggetti privi dei requisiti per risiedere nel paese. A partire dall’autunno del 2012 − ed è stata questa svolta a far scoppiare lo scandalo − le forze dell’ordine hanno cominciato a fermare nei luoghi pubblici (in particolare nella metropolitana di Stoccolma) le persone con aspetto “non nordico”: una palese violazione di quei principi di eguaglianza e dignità umana la cui salvaguardia costituisce un caposaldo dell’identità svedese [19].

Le proteste si sono levate da più parti: associazioni di psicologi hanno denunciato come la polizia si apposti davanti ai loro studi, per “intercettare” stranieri bisognosi di psicoterapia perché traumatizzati dalle esperienze vissute nel paese di origine [20]; attivisti delle associazioni che lavorano con gli immigrati irregolari ricordano le condizioni di vita di queste persone, costrette all’invisibilità e dunque (auto)escluse da una serie di servizi, dai trasporti alla sanità, per non essere smascherate [21]. I figli di immigrati irregolari hanno diritto solo dal 1° luglio di quest’anno a frequentare la scuola; ma c’è già chi mette in dubbio che il riconoscimento, assai tardivo, di questo diritto possa acquistare un significato effettivo: non c’è motivo di pensare, infatti, che la caccia ai clandestini si arresti sulle soglie degli edifici scolastici, con chiaro effetto deterrente sulla decisione delle famiglie se mandare i figli a scuola o sacrificare la loro istruzione [22]. Lo stesso vale per le cure sanitarie (il cui accesso gratuito è stato interdetto agli irregolari fino al 1° luglio dell’anno corrente) [23].

Incertezze strategiche

Si scontrano, nel dibattito svedese, tendenze contraddittorie: da un lato la volontà di fare onore ai principi di solidarietà e ospitalità che hanno caratterizzato la politica svedese del dopoguerra; dall’altro, la svolta dal Welfare al Workfare, con conseguente pressione sul diritto d’asilo e sulle politiche di integrazione dei rifugiati nonché sul piano di inserimento per i richiedenti asilo.

Il governo di centrodestra non ha giocato, almeno finora, la carta della xenofobia; anzi, ha aperto all’immigrazione per lavoro e non ha rinnegato la svolta neppure al manifestarsi della crisi economica (che peraltro ha colpito la Svezia in modo tardivo e più lieve, rispetto ad altri paesi europei). Per un altro verso, tuttavia, ha inasprito i requisiti per la concessione dell’asilo nonché la lotta all’immigrazione clandestina. Restano poi i dubbi sulle effettive motivazioni della riforma del 2008: aprire a competenze non disponibili in Svezia o colpire il sindacato (di fatto estromesso dalla possibilità di negare l’autorizzazione ad assumere un lavoratore straniero) e rendere disponibile una forza-lavoro pronta ad accettare condizioni “impensabili” per gli autoctoni?

Dall’altra parte, la sinistra (oltre ai socialdemocratici, il partito di sinistra, ex-comunista) e il sindacato si trovano in una posizione molto scomoda: per tutelare i diritti dei loro elettori/iscritti non possono che guardare criticamente all’afflusso di lavoratori stranieri, provenienti per lo più da paesi dove il diritto del lavoro è, per usare un eufemismo, a uno stadio embrionale; nello stesso tempo, una linea di chiusura sarebbe impopolare presso certi settori dell’opinione pubblica (visto l’impatto che gli argomenti del calo demografico e della crescita economica hanno avuto sul dibattito, conquistando settori nuovi di elettorato alla causa dell‘apertura), rischiando altresì di essere “confusa” con le posizioni grettamente xenofobe (in particolare anti-islamiche) dei “Democratici di Svezia”.

Si tratta di un compromesso delicato e instabile, che i socialdemocratici e il sindacato dovranno consolidare, per affrontare in modo credibile la campagna elettorale del prossimo anno.

1 Si veda ad es. H. Kjöller, Megafon med oklar röst [Un Megafono dalla voce ambigua], “Dagens Nyheter”, 04/06/2013.

 
2 Si veda P. Wirtén, Mot torgen [Verso la piazza], “Expressen”, 20/06/2013.
 

3 Sulla tendenza, in corso in Svezia, a una mobilitazione degli abitanti dei sobborghi si veda M. Allelin, Saker behöver bli gjorda [Bisogna che le cose siano fatte], “Bang”, 04-06-2013. Come modello per l’aggregazione politica di strati sociali diversi viene proposta l’attività politica “dal basso” delle Pantere nere. E infatti Emory Douglas, ex-responsabile della cultura delle Pantere nere, ha espresso la sua solidarietà ai manifestanti.

 

4 Si vedano ad esempio l’articolo di Cinzia Freanceschini, Così il paradiso del ricco nord diventa un inferno, “il venerdì di Repubblica”, 7 giugno 2013, e [Editorial], The "Nordic model" of progressive politics, low unemployment and a generous social safety net appears to have been singed in the flames, “The Guardian”, 26/05/2013.

 
5 [Editorial], Sweden: reading the riots, “The Guardian”, 26/05/2013.
 
6 Cfr. C. Laorden, La violencia incendia las barriadas de inmigrantes de Estocolmo, “El País”, 22/05/2013.
 

7 Cfr. V. Stenquist, Löfven om Husby: Det är oacceptabelt och meningslöst [Löfven su Husby: è inaccettabile e assurdo), “Aftonbladet”, 20/05/2013.

 

8 Cfr. K. Östman, Frågor och svar om upploppen i förorten [Domande e risposte sulla rivolta dei sobborghi], “Aftonbladet”, 28/05/2013].

 

9 Si veda ad es. l’interpretazione di Eva Andersson, studiosa di geografia culturale (Università di Stoccolma) e di Tapio Salonen, sociologo presso l’Università di Malmö, in K. Östman, Frågor och svar cit..

 

10 La riforma delle politiche di integrazione varata nel 1985 prevedeva che i Comuni ricevessero sovvenzioni statali in proporzione al numero di rifugiati che accoglievano. Il programma si è rivelato complessivamente fallimentare: i rifugiati venivano dislocati per lo più in aree con scarse opportunità di lavoro e un alto tasso di disoccupazione fra gli autoctoni, finendo così per gravare sul Welfare State (con conseguenti polemiche sull’abuso di cui sarebbero stati responsabili). Per giunta, se da un lato per lo Stato diventava difficile trovare Comuni disposti ad accogliere altri rifugiati oltre a quelli già presenti sul territorio, dall’altro lato i rifugiati erano “bloccati” nel Comune da cui erano stati accolti, che avrebbe perso le sovvenzioni statali se il loro numero si fosse ridotto. Nel corso degli anni Novanta veniva introdotta maggiore flessibilità nella gestione dell’integrazione dei rifugiati, che erano autorizzati a scegliere il Comune di residenza (con conseguente pressione sulle grandi città). Cfr. C. Westin, Sweden: Restrictive Immigration Policy and Multiculturalism.

 

11 Cfr. L. Back, P. Gilroy, M. Dikec, Husby-kommission krävs för djup analys [C’è bisogno di una commissione-Husby per un’analisi approfondita], “Svenska Dagbladet”, 01/06/2013.

 
12 Cfr. F. Segerfeldt, En arbetsmarknad för alla [Un mercato del lavoro per tutti], Stockholm, Migro, 2013, p. 4.
 
13 Fonte: Statistiska centralbyrån [SCB, Ufficio centrale di statistica].
 

14 Su questi aspetti rinvio al mio Labour migration governance in contemporary Europe. The case of Sweden, “Working paper” realizzato all’interno del progetto LAB-MIG-GOV (“Which labour migration governance for a more dynamic and inclusive Europe?”, coordinato dal FIERI, in particolare pp. 36-41.

 
15 Si veda LO, Fusk och utnyttjande – om avregleringen av arbetskraftsinvandringen [Imbroglio e sfruttamento – sulla deregolamentazione dell’immigrazione per lavoro], Stockholm, 2013, p. 4.
 
16 Cfr. ibidem, p. 27.
 
17 Cfr. ibidem, p. 37.
 

18 REVA è l’acronimo di Rättssäkert och effektivt verkställighetsarbete [Certezza del diritto e efficacia dell’implementazione ].

 

19 Cfr. A. Karimi, Reva-projektet, ett mörkt kapitel i svensk historia [Il progetto REVA, un capitolo buio della storia svedese].

   

21 Cfr. K. Habul, Aktivister och politiker rasar mot polisen [Attivisti e politici accusano la polizia], “Aftonbladet”, 21/02/2013.

 

22 Cfr. E. Bardon, Polisen kan söka efter papperslösa i skolor [La polizia può dare la caccia agli irregolari a scuola], “Svenska Dagbladet”, 30/06/2013.

 

23 Si veda Sveriges Riksdag [parlamento svedese], Hälso- och sjukvård till personer som vistas i Sverige utan tillstånd [Trattamento sanitario delle persone residenti in Svezia senza permesso], 14/03/2013.