L’immigrazione nell’Italia post-pandemia: un pezzo del problema o della soluzione?

di Ferruccio Pastore – Direttore – FIERI

Si sente spesso dire che, di anno in anno, l’immigrazione è sempre più politicizzata e mediatizzata. In realtà, per quanto la tendenza di lungo periodo sembri effettivamente questa, l’andamento non è certo lineare e costante, bensì carsico. A periodi di emersione tumultuosa, ne seguono altri in cui il corso del torrente politico-mediatico rallenta o pare addirittura interrarsi.

Una delle ragioni di queste discontinuità è il periodico emergere di altre questioni che, presentandosi come emergenze, fanno retrocedere l’immigrazione nella scala delle priorità. Era accaduto negli anni della Grande Recessione e torna ad accadere oggi: un sondaggio recente mostra che, alla domanda “Qual è la sfida globale più importante per il tuo paese?”, la quota di coloro che rispondono “le migrazioni” è calata, tra gennaio e maggio 2020, dal 19% al 10% tra i francesi, dal 20% all’11% tra i tedeschi e dal 7% al 3% tra gli statunitensi; nel frattempo, prevedibilmente, le “emergenze sanitarie” sono diventate la maggiore fonte di preoccupazione in tutti e tre i paesi, con percentuali oscillanti tra il 45% della Francia e il 33% della Germania.Ovviamente, sono gerarchie estremamente volatili. Basta che, come sta avvenendo in questi ultimi giorni di luglio, gli sbarchi dal Nord Africa tornino a crescere, e che alcuni dei nuovi arrivati violino l’obbligo di quantantena, perché la “nuova” ansia da virus si combini a quella “vecchia da migrazioni, con effetti potenzialmente dirompenti.

Next Generation EU: solo nativi?

Anche nelle fasi acute, la politicizzazione della questione migratoria rimane, però, estremamente selettiva e schiacciata sul breve termine. Quando, come in queste settimane, la politica è costretta ad alzare lo sguardo verso un orizzonte più ampio e distante, l’immigrazione e ancor più le persone immigrate, come portatrici di istanze proprie, scompaiono.

Agli Stati Generali di giugno, l’unica voce non bianca e non autoctona è stata quella del sindacalista Aboubakar Soumahoro, che però, per ottenere udienza, ha dovuto incatenarsi davanti ai cancelli di Villa Pamphilj. Più in generale, nello stentato e opaco dibattito che si sta avviando sull’uso della nostra maxi-fetta di Recovery Fund, di immigrazione e integrazione non si parla. Come se quasi un decimo della popolazione, concentrato in attività spesso precarie, ma essenziali, non avesse a che fare con il futuro del paese.

Evidentemente, non è così. Non solo su un piano demografico ed economico, ma anche da un punto di vista politico e istituzionale. Infatti, per accedere ai fondi di Next Generation EU (il soprannome “accattivante” del Recovery Fund), entro l’autunno ogni stato membro dovrà presentare un “piano nazionale per la ripresa e la resilienza” per il periodo 2021-2023. Al punto A19 delle Conclusioni del Consiglio europeo straordinario di luglio è detto chiaramente in base a quali criteri questi piani nazionali verranno valutati dalla Commissione:

“… Nella valutazione il punteggio più alto deve essere ottenuto per quanto riguarda i criteri della coerenza con le raccomandazioni specifiche per paese, nonché del rafforzamento del potenziale di crescita, della creazione di posti di lavoro e della resilienza sociale ed economica dello Stato membro. Anche l’effettivo contributo alla transizione verde e digitale rappresenta una condizione preliminare ai fini di una valutazione positiva” (corsivo aggiunto).

Ma quali sono queste “raccomandazioni specifiche per paese”? Innanzitutto, quelle generate dalla procedura di coordinamento delle politiche economiche denominata “Semestre europeo”. Cosa c’entrano, però, gli immigrati? La risposta emerge con nitidezza dall’ultimo dei rapporti sull’Italia prodotti nel quadro del Semestre europeo. All’interno di un quadro complessivo impietoso, che mostra un paese sempre più diseguale (“l’indice di Gini [del reddito disponibile equalizzato], già tra i più alti dell’UE, è stato oggetto di un’ulteriore correzione al rialzo nel 2018”, p. 12), l’integrazione delle collettività di origine immigrata è al cuore di una delle cinque Raccomandazioni strategiche rivolte da Bruxelles a Roma (la numero 2, quella che esorta, tra l’altro, a “intensificare gli sforzi per contrastare il lavoro sommerso; garantire che le politiche attive del mercato del lavoro e le politiche sociali siano efficacemente integrate e coinvolgano soprattutto i giovani e i gruppi vulnerabili”, p. 21).

Può sembrare pedante richiamare estratti di un oscuro documento burocratico, per di più precedente alla pandemia, eppure è proprio da qui che partiranno gli uffici della Commissione, quando si tratterà di valutare il piano italiano.

D’altra parte, la pandemia non ha certo alleviato questi squilibri strutturali, se mai li sta aggravando. Le evidenze statistiche dell’impatto asimmetrico che la crisi indotta da COVID-19 sta avendo sulla condizioni degli immigrati sono ancora parziali, ma chiare.

Zavorra o propulsore

Nel caso italiano, l’immigrazione non è mai stata un propulsore per il paese; tutt’al più, è stata assimilata a una “protesi” o a una “stampella”. Ma se, come dopo la Grande Recessione del 2008-2009, neppure questa volta verranno adottate contromisure mirate contro l’aggravamento delle disuguaglianze legate al luogo di nascita e alla cittadinanza, il rischio che l’immigrazione si trasformi in una zavorra diventa reale.

I segnali di allarme preesistono alla pandemia: si consideri, per esempio, l’impressionante divario tra la crescita del numero di contribuenti stranieri (extra-UE), +2% tra 2012 e 2016, e quella della popolazione straniera nel suo complesso, dieci volte superiore. Dinamica preoccupante ma inevitabile, quando a una crisi devastante si affianca una chiusura pressoché decennale dei canali di ingresso legale per motivi di lavoro, di fatto un bando all’immigrazione produttiva.

Questi immigrati, che ci sono stati necessari e ora si sentono superflui (nel 2019, gli inattivi stranieri sono cresciuti di più del 3%, mentre quelli italiani sono calati dell’1%), riemigrano. Da questo punto di vista, il quadro che emerge dall’ultimo Bilancio demografico nazionale è crudele: nel 2019, l’afflusso di nuovi immigrati (misurato in base ai trasferimenti di residenza) è calato dell’8,6%. Quanto all’emigrazione, cresce assai più quella degli stranieri regolari (+39,2%, arrivando a 56mila in tutto) di quella degli italiani (182mila, +8,1% rispetto al 2018). Per di più, tra questi ultimi, molti sono in realtà ex-stranieri, che appena ottenuta la cittadinanza italiana, per naturalizzazione o al compimento dei diciott’anni, la usano come lasciapassare per l’Europa.

Quest’esodo discriminatorio non alleggerisce certo il potenziale fardello di un’immigrazione impoverita e ghettizzata; al contrario, privando le collettività di origine immigrata delle loro forze migliori, rischia di appesantirlo. Un paradosso particolarmente stridente, nel momento in cui si riparla di politiche di sostegno a giovani e natalità.

Occorre dunque riportare l’immigrazione nel dibattito sul dopo-pandemia e ridarle il suo rango di questione strategica. Nel gigantesco cantiere che l’Italia dovrà diventare per uscire da questa crisi, deve esserci un posto per gli immigrati, anche quelli più recenti e meno qualificati. Ma perché questo sia possibile, ci vorranno investimenti mirati; in particolare, previa rimozione degli ostacoli introdotti dalla controriforma del sistema di accoglienza del 2018, bisognerà varare un grande piano di upskilling, agganciato alle due macro-priorità continentali (Verde e Digitale).

Infine, per ancorare questi giovani al futuro dell’Italia, e rendere dunque produttivo l’investimento su di loro, sarà necessaria anche una riforma a costo zero, quella della cittadinanza, rimandata per un quarto di secolo e oggi più urgente che mai. Una parte dei neocittadini userebbe il nuovo passaporto per cercare condizioni migliori altrove, altri per rimanere con qualche svantaggio in meno: in entrambi i casi, rispetto allo status quo, si tratterebbe di un progresso.