di Emanuele Galossi (IRES-Cgil – Associazione Bruno Trentin)
In Italia, numerosi studi stanno monitorando la condizione occupazionale degli immigrati nel contesto della crisi [1]. Tutti sembrano convergere nella tesi che la difficoltà congiunturale stia colpendo questa fascia della popolazione in maniera molto significativa sia sul lavoro che sulla possibilità di avere un corretto processo d’integrazione attiva.
L’impossibilità di usufruire appieno dei diritti di cittadinanza, una normativa di rifermento iniqua, sbagliata e obsoleta, un mercato del lavoro segmentato e precario, la crisi dei settori produttivi in cui è più presente la componente immigrata e una incompiuta politica di integrazione, sono alcuni dei fattori che stanno inesorabilmente demolendo gli sforzi e gli investimenti di un’ampia parte della popolazione migrante che ha deciso di contribuire alla crescita del nostro paese.
Siamo, pertanto, davanti ad una fase nuova dei processi migratori che hanno l’Italia come punto d’arrivo e punto di partenza. C’è, infatti, da un lato, un nuovo e forte rilancio dell’emigrazione italiana all’estero [2] e dall’altro una messa in discussione del progetto migratorio di chi l’Italia l’ha scelta come nuova patria. Questa fase può portare a profonde trasformazioni del nostro sistema produttivo e demografico e avere un impatto destinato a cambiare per lungo tempo la nostra società.
Alla luce di ciò, il movimento sindacale, da sempre vicino alle dinamiche che trasformano il tessuto sociale ha intercettato questa particolare condizione sia nei luoghi di lavoro, sia attraverso le azioni di tutela individuale, specifica dei patronati.
In questo contributo sono riportati alcuni dei risultati di una survey dell’ABT che si è posta l’obiettivo di indagare gli effetti della crisi tra gli immigrati, sia dal punto di vista lavorativo sia rispetto alla vita sociale e ai processi d’integrazione. I dati riportati nell’indagine costituiscono i risultati delle elaborazioni di 1065 questionari somministrati in 10 regioni italiane e 40 diverse province.
Fino ad oggi il fenomeno migratorio in Italia è stato vissuto e spesso studiato come un processo sostanzialmente lineare. La domanda di lavoro delle nostre aziende e delle nostre famiglie ha intercettato l’offerta di lavoro di persone provenienti da altri paesi. Le caratteristiche di quel lavoro, dequalificato e poco pagato, ha incontrato la necessità di chi non poteva permettersi nessuna altra possibilità di scelta. E così nel corso degli anni si è strutturata sempre più la componente migrante nel mondo del lavoro e più in generale nella società. Oggi che quasi l’8% della popolazione residente e più del 10% della forza lavoro è di origine straniera, questo processo non si arresta ma va affrontato con paradigmi diversi. Le questioni più importanti sembrano essere due: cosa ha prodotto e cosa produrrà questo sistema duale dei diritti nella società e nel mercato del lavoro? Come ha inciso la crisi economica sui progetti migratori di chi è giunto in Italia e come questo ricadrà sull’intera società?
Le risposte a queste domande sono complesse e certamente serviranno ulteriori studi e approfondimenti per avere le idee più chiare, quello che però appare certo è che siamo arrivati ad un punto di svolta.
Sono anni in cui non c’è uno studio che non sottolinei la segmentazione del nostro mercato del lavoro, l’ultimo rapporto annuale dell’Istat ci dice che “a parità di sesso, età, ripartizione territoriale di residenza, livello di istruzione, ruolo in famiglia, settore occupazionale, regime orario, posizione e anni di esperienza lavorativa, uno straniero presenta una probabilità di trovare un’occupazione non qualificata sette volte più alta di un italiano con le stesse caratteristiche (…).
Per gli stranieri è più probabile rispetto agli italiani che un lavoro a tempo parziale sia associato alla scarsa qualifica dell’occupazione, aggravando una condizione lavorativa già critica” (Istat, 2013 p. 108). Anche i nostri studi hanno evidenziato da un lato la sofferenza occupazionale dei lavoratori migranti e dall’altro il loro stato di perenne dequalificazione. Un altro aspetto non trascurabile è che l’anzianità lavorativa o di residenza non sembrano attenuare queste dinamiche: essere immigrato è di per sé un elemento di freno alla mobilità sociale. E ciò non vale solo sul mercato del lavoro, ma nell’accesso più generale alla parità dei diritti. Lavoro e diritti, sono ancora una volta le due facce della stessa medaglia. Non è possibile avere un accesso dignitoso al primo se non viene garantita una piena maturazione e portabilità dei diritti di cittadinanza. Inoltre, abbiamo visto come in questa fase di crisi siano le componenti più vulnerabili a pagare di più in termini occupazionali, di reddito e di accesso ai diritti.
Il quadro che emerge dai dati Istat e dalla nostra indagine, ci descrive ancora una volta un lavoro immigrato dequalificato, in cui non c’è quasi mai progressione di carriera e fortemente segmentato in alcuni settori produttivi e dei servizi. La crisi ha colpito l’occupazione (soprattutto quella maschile), le retribuzioni e le condizioni di lavoro. Aumentano gli orari ma diminuiscono le giornate lavorative, aumenta il lavoro nero e le forme di falso part time e falso lavoro autonomo.
Ma soprattutto, aumentano le paure e quella più grande è di perdere o non trovare più lavoro. Questo timore coinvolge la quasi totalità degli immigrati, perché il lavoro, oltre a garantire un reddito e una vita dignitosa è la condizione senza la quale non è possibile soggiornare regolarmente nel nostro paese. Per questo motivo aumenta il peso della ricattabilità e le condizioni di lavoro, già molto problematiche, diventano ancora più vessatorie. Anche chi vive in Italia da molti anni (e sono la grande maggioranza degli immigrati), non sembra che sia riuscito a superare le dinamiche discriminatorie di un mercato del lavoro duale e, purtroppo, anche per le seconde generazioni il percorso di piena acquisizione dei diritti di cittadinanza appare molto difficoltoso.
Grazie all’analisi delle oltre mille interviste realizzate abbiamo visto che lo stesso progetto migratorio viene messo in discussione da un numero sempre crescente di immigrati. La riduzione delle rimesse, i mancati ricongiungimenti familiari, i parenti più stretti che sono costretti a emigrare di nuovo, i ragazzi in età scolare obbligati ad abbandonare il proprio percorso formativo per sostenere il reddito familiare, sono tutti elementi che destabilizzano la vita degli immigrati e quella delle loro famiglie sia che vivano qui, sia che vivano nei paesi d’origine. Evidentemente non è un caso se 4 immigrati su 10 pensano di dover intraprendere un nuovo percorso migratorio che li porti lontano dall’Italia.
Questi dati, non possono e non devono essere sottovalutati. In primo luogo per le ricadute, spesso drammatiche, che hanno sulle persone protagoniste delle migrazioni. Secondo poi, per i possibili effetti sul nostro sistema paese. Gli immigrati oggi rappresentano oltre il 10% del PIL, contribuiscono a sostenere il welfare, sorreggono una parte significativa del sistema previdenziale e offrono un decisivo contributo demografico.
Esiste il rischio di un depauperamento di risorse professionali (è emerso infatti che le persone più motivate a partire sono quelle più giovani e con titoli di studio più alti), nonché la progressiva destrutturazione di settori determinati del nostro sistema produttivo e sociale. Esiste il rischio di strutturare una società con cittadini di serie A e non cittadini di serie B, creando un vulnus pericoloso per la stessa tenuta del nostro sistema democratico. Aumenta il bacino della povertà, che associato all’immobilismo dell’ascensore sociale rischia di creare nel futuro forti tensioni di carattere sociale come quelle che hanno già attraversato le periferie francesi e inglesi negli scorsi anni.
“Le scelte politiche orientate a rispondere ai problemi contingenti rischiano di sottovalutare (o ignorare) il contributo che gli stranieri possono offrire per favorire la ripresa economica e l’uscita dalla crisi” (Fondazione Leone Moressa, 2012, p.18), in tal senso c’è un’urgenza di azioni che uniscano la società, che la compattino e che siano tese alla rimozione delle disuguaglianze, senza questa accortezza la tanto agognata uscita dalla crisi sarà parziale e le condizioni per un reale rilancio socio-economico del nostro paese saranno irrimediabilmente compromesse.
Anche l’ultimo Outlook dell’Ocse sulle migrazioni evidenzia il ruolo negativo delle discriminazioni nel mercato del lavoro, limitando le opportunità che hanno gli immigrati di contribuire pienamente al progresso economico e sociale del paese in cui vivono. Secondo questo studio, peraltro, non sono solo gli immigrati a pagare, ma l’economia e la società nel suo complesso. E poiché la discriminazione è spesso causata da stereotipi infondati, spetta ai “governi fare tutto il possibile per migliorare le prospettive di lavoro degli immigrati”, afferma il segretario generale dell’OCSE Angel Gurría.
Quello che emerge chiaramente dalle nostre ricerche è che la crisi ha solamente accelerato e aggravato dinamiche già in essere nelle nostra società. Le risposte, pertanto, non possono essere “emergenziali” se non per affrontare le ricadute del primo periodo (come è stato ad esempio l’aumento del periodo del permesso di soggiorno per ricerca lavoro), ma di carattere strutturale. Sono necessarie politiche – anche a livello Europeo – indirizzate al superamento della dualità nel mercato del lavoro e quella nell’accesso ai diritti, bisogna garantire un processo di integrazione attiva che sia in grado valorizzare le differenze e non le stigmatizzi.
Scarica la ricerca “L’impatto della crisi sulle condizioni di vita e di lavoro degli immigrati” Scarica il numero di Rassegna Sindacale con un’intervista a Ferruccio Pastore