Di Stefano Liberti, co-autore con Andrea Segre del film-documentario “Mare chiuso”. Articolo originariamente pubblicato in inglese sul sito di Open Society Foundations
Il 7 maggio 2009 l’allora Ministro degli Interni italiano Roberto Maroni annunciava con un certo orgoglio l’avvio di una nuova politica di gestione dei flussi migratori attraverso il Mediterraneo: “Tutte le imbarcazioni di migranti intercettate in mare saranno d’ora in poi rimandate indietro in Libia”. Da allora, è cominciata la cosiddetta politica dei “respingimenti”, che ha portato al rimpatrio di circa 1000 migranti – molti dei quali richiedenti asilo provenienti da Eritrea, Somalia, Etiopia e Sudan – in Libia, un paese che non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra e non riconosce il diritto d’asilo. I migranti rispediti indietro con la forza sono stati sistematicamente messi in centri di detenzione e sottoposti ad abusi di vario genere.
Le operazioni di respingimento erano una diretta conseguenza della nuova alleanza tra la Libia e Italia, conclusa sotto gli auspici del “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione” del 2008. Il testo, firmato dal defunto leader Muammar Gheddafi e dall’allora Primo Ministro Silvio Berlusconi a Bengasi, rappresenta una vera e propria pietra miliare nei rapporti tra i due paesi. L’Italia si è assunta l’onere di versare alla Libia 5 miliardi di dollari come risarcimento per i danni inflitti durante l’epoca coloniale. In cambio, la Libia garantisce alle società italiane un accesso privilegiato al settore petrolifero e al suo nuovo programma infrastrutturale su larga scala. Ha anche assicurato al governo italiano che si sarebbe impegnata a bloccare le barche di immigrati in partenza per l’Italia. Così il Primo Ministro Berlusconi ha riassunto l’accordo: “Da oggi, avremo più petrolio e meno immigrati clandestini”.
A partire dal maggio 2009, il Mediterraneo è quindi diventato un “mare chiuso”. Le navi militari italiane hanno fermato tutte le barche in transito cariche di immigrati, riconsegnando questi ultimi ai libici. In effetti, molte delle navi erano le stesse usate precedentemente per operazioni di salvataggio.
Cosa è successo su quelle navi? Come sono state condotte quelle operazioni? I migranti sono stati identificati? Sono stati messi in condizione di chiedere asilo? Il Governo italiano non ha mai risposto a queste domande. I migranti respinti in Libia non sono mai stati capaci di fornire la propria versione dei fatti. Sono infatti stati incarcerati in campi di detenzione, in un paese che notoriamente fornisce un accesso molto limitato alla stampa internazionale.
Nel settembre 2009 ero a Tripoli per il 40esimo anniversario della “rivoluzione”, il colpo di stato militare che aveva rovesciato il re Idris al-Sanousi e portato al potere un gruppo di giovani ufficiali guidati da un colonnello ventisettenne, Muammar Gheddafi. La capitale era affollatissima, molti dignitari africani erano venuti per partecipare alle celebrazioni e omaggiare il vecchio leader. Un grande spettacolo era stato organizzato nella Piazza verde, il principale punto di raduno sul lungomare. Per l’occasione, moltissimi giornalisti erano stati autorizzati a venire e i controlli si erano fatti inevitabilmente meno rigidi. Così, sono riuscito a svicolare dalle celebrazioni ufficiali e incontrare alcuni immigrati eritrei in un quartiere periferico della città. Mentre bevevamo una tazza di té, seduti sul pavimento di una piccola stanza priva di elettricità, mi hanno raccontato come era avvenuto il respingimento in mare verso la Libia di un gruppo di loro connazionali. “Erano quasi arrivati a Lampedusa. Gli italiani li hanno portati indietro a Tripoli e picchiati. Poi sono arrivati i libici e li hanno presi con loro”. I miei interlocutori hanno poi aggiunto che i migranti “respinti” erano nel centro di detenzione di Misurata e che era possibile parlare con loro, dal momento che avevano un telefono cellulare. Ho subito composto il numero e mi sono presentato. Un uomo chiamato Yohannes ha accettato di raccontarmi cosa era successo su quella barca. “Ci hanno detto che stavamo andando in Italia. Ma in realtà hanno preso la direzione sud. Dopo alcune ore, abbiamo capito che stavamo andando in Libia e abbiamo cominciato a protestare. Loro hanno reagito molto male. Ci hanno picchiati. Hanno usato manganelli e pistole elettriche. Noi li abbiamo supplicati. Ma non hanno mostrato la minima pietà. Hanno ferito quattro di noi. Poi ci hanno riconsegnato ai libici”.
Yohannes ha poi aggiunto che avevano un video girato con un cellulare, che mostrava il momento esatto in cui la nave militare gli era venuta incontro. Il video era su una flash drive ma, poiché loro erano in carcere, era impossibile farlo uscire. Dopo questo prima telefonata, ho chiamato Yohannes con una certa frequenza per mantenere i contatti e assicurarmi che lui e i suoi connazionali non fossero a rischio di essere deportati nel loro paese natale.
Alla fine, circa sette mesi dopo, Yohannes è stato rilasciato. E’ quindi tornato alla sua vita abituale a Tripoli, scandita da lavoretti e dalla perenne ricerca di un’occasione per attraversare il mare. Un giorno nel luglio 2010, mi ha chiamato e mi ha detto che aveva probabilmente trovato un modo per mandarmi il video tramite internet. Il file era molto pesante e le connessioni libiche molto precarie. Yohannes ha dovuto provare molte volte, ma alla fine è riuscito a spedirlo.
Il video era impressionante. Mostrava un gommone strapieno di migranti. Sulla barca, si vedono alcune donne e un gruppo di bambini. Improvvisamente, appare sullo sfondo una nave militare italiana. I passeggeri gridano di gioia. “Siamo salvi, stiamo per andare in Europa”, dicono. Appaiono tutti molto felici. Poi si avvicina un’altra piccola barca, con a bordo tre uomini. Nel cominciare le operazioni di trasferimento, i tre urlano: “Prima le donne e i bambini”.
Poi il video si interrompeva. Non mostrava la fine della storia. “Lo abbiamo nascosto durante tutte le perquisizioni che abbiamo subito”, mi ha detto Yohannes. “Quando abbiamo capito che le cose stavano prendendo una brutta piega, abbiamo decido di tenere il video come prova. Per fortuna, non l’hanno trovato”.
Ho guardato il video con il mio collega Andrea Segre e abbiamo immediatamente pensato che la storia meritava di essere raccontata a un pubblico il più ampio possibile. Avevamo lavorato insieme in altri documentari sull’impatto degli accordi migratori tra Libia e Italia. Il primo, “A Sud di Lampedusa” (2006), era stato girato nel deserto del Sahara subito dopo il primo accordo tra Roma e Tripoli, in conseguenza del quale migliaia di migranti erano stati deportati dalla Libia al Niger e abbandonati in mezzo al deserto, anche se avevano vissuto in quel paese per decenni. Il secondo film, “Come un uomo sulla terra” (2008), era stato girato a Roma tra i rifugiati etiopi da Andrea e dal film-maker etiope Dagmawi Yimer. Mostrava le condizioni di vita nei centri di detenzione libici, dove tutti loro e lo stesso Dagmawi avevano trascorso mesi se non anni. Era una storia di abusi e disperazione che ci riguardava direttamente, dal momento che alcuni di questi centri erano stati finanziati e costruiti dal governo italiano.
Abbiamo pensato che il passo successivo era esplorare gli effetti diretti del trattato di amicizia. Il video che aveva mandato Yohannes ci forniva una straordinaria chiave per entrare nel racconto. Abbiamo pensato che le persone riprese potevano diventare i nostri protagonisti – avrebbero raccontato il resto della storia. Ma non era semplice. L’accesso della stampa in Libia rimaneva rigidamente controllato e noi non avremmo mai ottenuto un visto per il tipo di progetto che avevamo in mente.
Poi, nel febbraio 2011, la guerra in Libia ha improvvisamente aperto una finestra di opportunità. I gruppi ribelli hanno assunto il controllo della parte orientale del paese. Sul terreno regnava il caos più totale e la maggior parte dei migranti sono fuggiti verso la Tunisia alla ricerca di protezione. Molti di loro sono finiti nel campo rifugiati delle Nazioni unite di Shousha, vicino al confine con la Libia. Sono stati accolti in tende e inseriti in un programma di resettlement dell’ONU. Avrebbero quindi trascorso un po’ di tempo in attesa di essere spediti in paesi terzi che li avessero accettati. Per la prima volta, gli immigrati precedentemente respinti dall’Italia erano accessibili.
Siamo subito partiti per Shousha per farci raccontare cosa fosse effettivamente accaduto su quelle navi. Quando siamo arrivati al campo, abbiamo capito subito che il nostro obiettivo era condiviso con gli uomini e le donne che erano stati deportati. Quando abbiamo spiegato loro la nostri idea, hanno tutti aderito entusiasticamente al progetto. Volevano raccontare la loro storia non solo per ottenere una qualche forma di giustizia, ma anche per “evitare questi errori si ripetano” – come quasi tutti loro ci hanno detto durante le interviste. Insieme, volevamo realizzare qualcosa che sarebbe potuto diventare uno strumento di sensibilizzazione per il futuro – volevamo influenzare le politiche future di collaborazione tra Italia e Libia in campo migratorio.
Guarda il trailer di Mare chiuso
https://youtube.com/watch?v=xuJM8KoTHmU%3Fversion%3D3%26amp%3Bhl%3Dit_IT
Mogos Berhane, uno dei nostri protagonisti, ci ha recentemente scritto, dopo aver visto il film: “Sono profondamente convinto che questo film documentario provvederà a cambiare l’attitudine della gente rispetto ai rifugiati nella sponda nord del mar Mediterraneo. E il mondo non ripeterà gli stessi errori commessi contro i rifugiati. Il valore morale di fornire agli esseri umani condizioni di vita decenti non dovrebbe mai essere sacrificato sull’altare di avidi interessi politici ed economici”.
Le sue parole rispecchiano la nostra speranza.
La politica dei respingimenti è al momento sospesa. E l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per le operazioni condotte nel maggio 2009. Ma il nuovo governo italiano ha già avviato negoziati con le autorità transitorie libiche per stabilire una qualche forma di cooperazione mirata a bloccare l’immigrazione via mare. La politica sembra seguire il vecchio schema: ai migranti deve assolutamente essere impedito di arrivare, anche se sono richiedenti asilo in fuga da guerre e persecuzioni politiche.
Su questo argomento vedi anche:
SOS Europe – Il rapporto di Amnesty International sui respingimenti