Ivana Nikolic in dialogo con Yassin Dia e Giulia Liti
Questa intervista è stata realizzata nell’ambito della rubrica Non Meno Uguale, nella quale FIERI si propone di dialogare con giovani con retroterra migratorio attivamente impegnati in progetti per l’inclusione sociale per riflettere più consapevolmente sulle discriminazioni e le loro conseguenze nell’Italia contemporanea.
Ivana Nikolic è un’artista e attivista per i diritti della minoranza romaní (termine che include diverse comunità tra cui quelle rom, sinti, kalé, romanichal e manush, ciascuno dei quali diviso ulteriori sottogruppi). Organizza eventi culturali, spettacoli teatrali, laboratori e progetti educativi rivolti ad adulti e ragazzi. È ideatrice e speaker del podcast + rom – rum”, attraverso il quale si impegna a contrastare la discriminazione nei confronti delle persone rom e sinti in Italia, raccontandone la cultura, l’arte, la storia e la memoria. Il podcast ospita spesso altri attivisti impegnati nel contrasto delle discriminazioni nel contesto italiano.
YD&GL: Quali discriminazioni vivono oggi le persone rom e sinti in Italia?
In Italia, purtroppo, esiste ancora un grande problema di discriminazione nei confronti della mia minoranza etnica, quella romaní. Vorrei specificare che in questo paese, non è ancora stata riconosciuta ufficialmente come minoranza storico-linguistica, a differenza di quanto accade in altri paesi europei. Sebbene, le persone romaní si confrontano con la discriminazione anche nel resto d’Europa, ritengo che questo riconoscimento dimostri che all’estero esiste un’attenzione maggiore da parte delle istituzioni nei confronti di questa minoranza. Un’attenzione che, al contrario, in Italia è assente. Eppure, la presenza romaní in questo paese ha una storia molto lunga: infatti, i primi insediamenti rom risalgono al XV secolo e alcune grandi famiglie rom hanno vissuto qui per centinaia di anni. Nell’opinione pubblica è spesso diffuso il pregiudizio che l’Italia sia “invasa” dai rom, ma non è così. Infatti in Italia, si stima che ci siano circa 180000 persone di etnia romaní, poche rispetto ad altri paesi europei, per esempio quelli dell’area balcanica. (Segnaliamo che i dati disponibili sulla presenza romaní in Italia corrispondono a delle stime. Inoltre, l’associazione 21 luglio, un’organizzazione non profit che supporta gruppi e individui in condizione di segregazione estrema e di discriminazione, ritiene che sia impossibile fornire stime precise data l’eterogeneità delle popolazioni romaní – ndr)
Oggi, moltissime persone rom hanno la cittadinanza italiana. Eppure, non siamo considerati cittadini a tutti gli effetti, perché rimaniamo bloccati nell’etichetta degli “zingari”. La discriminazione nei nostri confronti è politica, economica, sociale e culturale. Siamo bloccati in un limbo che ci nega il diritto alla scuola, al lavoro, all’istruzione e alla casa.
Pensiamo, per esempio, al grande problema dei campi. A partire dagli anni Settanta, fu attuata una politica di sedentarizzazione, finalizzata all’istituzione di campi regolari (attraverso tre circolari del Ministero degli Interni 1973, 1982, 1985 – ndr). In precedenza, esistevano già alcuni campi, che però erano stati formalmente chiusi dopo la seconda guerra mondiale. Nonostante ciò, diversi campi hanno continuato a esistere informalmente, fino all’applicazione di questa legge che li ha riconosciuti e regolarizzati. Ritengo, però, che questa riforma, elaborata da persone non rom per i rom, abbia contribuito a costruire dei luoghi di segregazione e di esclusione per questa minoranza. Alla base dell’istituzione dei campi, infatti, c’è la convinzione sbagliata, stereotipata e discriminante che i rom (“gli zingari”) sono nomadi e come tali non vogliono vivere in una casa. In altri paesi europei, dove non esistono i campi istituzionali, le persone di etnia romaní hanno una maggiore libertà di scelta sul luogo in cui abitare. In Italia, invece, è molto difficile evitare di rimanere bloccati nel sistema dei campi, dove, in teoria, dovrebbero esserci i servizi igienici, le utenze di acqua, luce e gas, ma in realtà, molto spesso non c’è nulla di tutto ciò. (Segnaliamo che il rapporto dell’associazione 21 luglio del 2021 ha riscontrato un calo della percentuale delle persone rom che vivono nei campi in condizioni di emergenza. Secondo quanto riportato dall’associazione, le cause di questa diminuzione sono eterogenee, dal desiderio delle generazioni più giovani di trovare diverse soluzioni abitative, agli sgomberi forzati, fino ad alcuni processi di superamento dei campi da parte delle istituzioni – ndr).
Purtroppo, molte persone, per avere una vita normale, decidono di rinnegare di essere rom e di rendersi invisibili. Questa scelta, però, ha delle conseguenze anche sulle generazioni future, alle quali verrà negato il diritto di conoscere la loro storia e la loro identità. A lungo termine questo processo potrebbe portare all’oblio e all’annullamento della nostra minoranza etnica.
YD &GL: Qual è il ruolo del linguaggio nella costruzione degli stereotipi e quali sono le parole appropriate per parlare di queste minoranze?
Il linguaggio ha un ruolo fondamentale. Le parole, infatti, possono essere discriminanti, ma anche rivoluzionarie e portare a un vero e proprio cambiamento. In Italia, si fa una gran fatica a non utilizzare il termine “zingaro”, nonostante abbia una fortissima valenza discriminatoria. Questa parola ha un peso diverso se usata da una persona rom o da una persona non rom. Ritengo che le persone romaní abbiano il diritto di riappropriarsi, rivendicare e utilizzare il termine “zingaro”. Al contrario, non è giusto che una persona che non appartiene a questa minoranza etnica lo usi, perché nella maggior parte delle volte questo termine è impiegato con un valore offensivo e discriminatorio. Ci sono però altri usi impropri di questo termine: per esempio, chi si definisce “zingaro” pensando che questa parola evochi un’idea di libertà, è inconsapevole del fatto che storicamente questo termine ha assunto il significato di “schiavo” e che dunque sta affermando esattamente il contrario.
È necessario comprendere e correggere il linguaggio, in modo che la parola “zingaro” non sia usata, ma che si impieghino i termini corretti, ovvero, romaní o Roma people. Al momento queste espressioni non sono molto in uso in Italia, dove si ricorre più facilmente la definizione “rom e sinti” anche se in realtà si riferisce solo a due sottogruppi di questa minoranza. Il termine romaní include tutti i gruppi e i sottogruppi, mentre il sinonimo Roma ha un significato letterale ancora più esteso perché significa “esseri umani”.
YD&GL: Una delle tematiche ricorrenti del tuo podcast è quella della memoria: in che modo essa può servire a contrastare la discriminazione? Quali strumenti possono essere utili a veicolarla?
Contrastare la discriminazione è molto difficile, dal momento che agisce a più livelli: non proviene solo dall’esterno, ma è anche interiorizzata. Infatti, noi rom, abbiamo spesso la sensazione che non ci sia concesso poter vivere la nostra appartenenza etnica liberamente. Spesso ci sentiamo sbagliati e colpevoli di essere “zingari”. È molto difficile prendere le distanze da stereotipi che non ci definiscono e che ci non appartengono, ma che sono profondamente radicati nella nostra esperienza quotidiana. Anche io, pur essendo un’attivista che affronta spesso il tema della discriminazione, a volte mi sento in difficoltà a confrontarmi con questi stereotipi. Quando ho iniziato a lavorare maggiormente più con i social network, ho scoperto che tantissimi ragazzi e ragazze rom provano una sensazione di vergogna per la loro appartenenza a questa minoranza e si nascondono. Per molti di loro è difficile fare “coming out etnico” ovvero di rivelare il proprio essere rom. Questa rivelazione può essere fatta solo quando c’è una rete di supporto costituita dalle persone che ci circondano e quando si è sicuri di non rischiare di trovarsi in situazioni di pericolo. Per alcune persone, esporsi può essere molto complesso e può richiedere molto tempo. Ho conosciuto anche diverse persone che hanno scoperto le proprie origini rom solo in età adulta e vogliono conoscere una parte della loro identità che prima ignoravano. In questo contesto, la memoria ha un ruolo fondamentale, sia per chi vuole riconoscere e riappropriarsi della storia della propria famiglia, sia più in generale per l’intera comunità. Infatti, se noi non lottiamo oggi per la conservazione della memoria, corriamo il rischio che in futuro, l’unica cosa che si ricordi dell’identità romaní, sia lo stereotipo “zingaro”.
A mio avviso uno strumento molto efficace per trasmettere la memoria, può essere l’arte, perché permette di raccontarsi e aiutare gli altri a farlo. Come artista, lavoro molto in progetti di arte sociale con comunità, gruppi di ragazzi e adulti, nei quali decidiamo insieme che cosa vogliamo raccontare e denunciare. Ritengo che, attraverso l’espressione artistica, si possano comunicare messaggi in modo diretto e semplice, soprattutto quando il pubblico si trova in una situazione in cui è a proprio agio ed è pronto ad accogliere l’emozione dell’artista. Per esempio, durante uno spettacolo teatrale, il pubblico è predisposto all’ascolto e può cogliere delle informazioni che magari ignorava e confrontarsi con temi che non ha mai toccato.
Recentemente, ho lavorato a un progetto di teatro sociale con un gruppo di adolescenti che è culminato nella realizzazione di uno spettacolo che si intitola proprio “Coming out etnico. Orgogliosi di essere Rom e Sinti”. La rappresentazione è stata messa in scena a Torino il 26 gennaio 2023, proprio a ridosso della Giornata della Memoria, per riflettere anche sul passato: purtroppo, molti ignorano il genocidio rom Samudaripen (letteralmente “omicidio di massa” – ndr) e ancora meno persone sanno che anche i rom hanno partecipato alla Resistenza. Proprio per questo motivo, queste memorie meritano di essere raccontate e conosciute
YD & GL: Attivismo e intersezionalità. Cosa accade quando i livelli di discriminazione si incrociano? Come ti sei trovata a collaborare con altri gruppi di minoranze che vivono altre discriminazioni?
Nel mio podcast parlo molto e credo molto nell’attivismo intersezionale. L’intersezionalità è uno strumento utile per comprende le discriminazioni possano sommarsi e intersecarsi all’interno delle nostre esperienze di vita.
Ritengo che la mia generazione e quella ancora più giovane (persone nate negli anni Novanta e dal nuovo millennio in poi -ndr), siano molto più aperte nell’accogliere, comprendere e praticare l’intersezionalità. Vorrei sottolineare, a proposito della complessità delle discriminazioni che viviamo, che il fatto di essere romaní non esclude la possibilità di far parte contemporaneamente anche di altre minoranze. Ho approfondito questo discorso in una puntata del podcast “Essere gay e rom” con l’attivista Ervin Bajrami. Ervin è rom, originario dei Balcani, ma è anche italiano, musulmano e fa anche parte della comunità LGBT. Conosce bene diversi tipi di discriminazione, ma la sua esperienza come attivista è rappresentativa dell’intersezionalità.
Mi sono trovata molto bene a collaborare con diversi attivisti della nera e di quella LGBT+: infatti, dico spesso nel podcast che devono essere di esempio di lotta per la mia minoranza etnica. Anche la comunità ebraica, finalmente si sta aprendo: ho realizzato una puntata intitolata “Identità ebraica e romaní” insieme a Simone Santoro, presidente di Giovani Ebrei d’Italia, ma sarebbe bello approfondire ancora di più questa collaborazione.
Mi è capitato di trovare alcune persone di altre minoranze poco interessate a partecipare: infatti, non è detto che chi fa parte di una minoranza, sia automaticamente tollerante nei confronti delle altre. Finora, però, ho avuto delle esperienze di collaborazione molto positive. Al di là dei percorsi diversi, ci sono spazi di dialogo e reti di supporto tra gruppi diversi e a anche nella stessa comunità romaní.