Matrimoni di ritorno – Riflessioni intorno a un matrimonio estivo nella Macedonia occidentale

Di Viviana Premazzi – Ottobre 2012

La Macedonia è uno di quei “nuovi” stati che difficilmente la gente sa collocare sulla cartina e ancor meno descriverne la storia. Questo potrebbe essere dovuto al fatto che è una delle poche ex repubbliche jugoslave che è arrivata all’indipendenza senza passare per la guerra o i cui scontri etnici interni tra albanesi e macedoni nei primi anni 2000 non sono stati considerati degni dell’attenzione della stampa occidentale.

La Macedonia è, inoltre, da tempo un Paese di emigranti. Si stima che la diaspora macedone all’estero sia attorno alle 700.000 persone, anche se non vi è alcuna istituzione in Macedonia in grado di fornire statistiche attendibili sul livello di emigrazione dal Paese. Le comunità più ampie si trovano in Australia, Stati uniti e Canada. Molti migranti scelgono l’Italia, in particolare Treviso, Piacenza, ribattezzata “Strumicenza” (crasi con la provincia macedone di Struga), Venezia, Asti e Canelli.

Secondo alcune stime circa 5.000 cittadini macedoni migrano ogni anno verso l’Italia ottenendo un passaporto bulgaro (in quanto appartenenti alla minoranza macedone in Bulgaria) o attraversando il confine illegalmente laddove non si abbiano parenti o amici già residenti in Italia che aiutino a regolarizzarsi.

Dall’aeroporto di Treviso partono voli diretti per Skopje due volte alla settimana. La maggior parte dei Macedoni residenti in Italia vive infatti in Veneto (19.870 persone alla fine del 2010, 7686 solo nella provincia di Treviso). Nella Macedonia occidentale, in particolare, ci sono villaggi interi in cui la lingua italiana è estremamente diffusa, quasi una specie di lingua franca (insieme allo stesso dialetto veneto). In questi villaggi, infatti, viveva la maggior parte degli immigrati macedoni in Italia. Qui oggi lavorano come fabbri, muratori, carpentieri, imbianchini. Arrivati in Italia negli anni ’90 e 2000 anche per questa comunità si comincia a parlare di seconde e terze generazioni.

Durante l’estate i villaggi, pressochè disabitati nei mesi invernali, tornano a vivere. E il mese di agosto sembra ormai essere stato trasformato nel mese dei matrimoni. Quello a cui abbiamo avuto la fortuna di partecipare è stato celebrato nel villaggio di Borovec, nella provincia di Struga, nella parte occidentale della Repubblica di Macedonia tra due giovanissimi macedoni, residenti in Italia (o per meglio dire seconde generazioni dell’immigrazione macedone in Italia).

In queste zone vivono i torbeshi, una comunità di slavi cristiani islamizzati durante la dominazione ottomana, che hanno affinità sia con i pomacchi dei Monti Rodopi sia con i gorani di Albania e Kosovo. Anche tra i torbeshi ci sono moltissimi immigrati in Italia detti “pechalbari” (emigranti, appunto). I matrimoni tra i torbeshi si festeggiano secondo l’antica tradizione e durano per tre giorni e tre notti. Zurni e tapani (flauti e tamburi), sax e fisarmoniche accompagnano le danze che si ripetono senza sosta giorno e notte perchè nei matrimoni macedoni ballare è molto più importante che mangiare.

Il matrimonio di Borovec è stato celebrato nel rispetto di tutte le tradizioni della comunità, custodite dagli anziani: mentre i festeggiamenti, canti e balli, erano in corso a casa dello sposo, ad esempio, un gruppo di uomini, parenti dello sposo, è partito per andare a incontrare gli uomini della famiglia della sposa e “sigillare con loro l’affare del matrimonio”.

Poi la sposa è stata coperta con un broccato, “rapita” e portata a casa dello sposo. Nelle comunità musulmane macedoni, lo sposo e sua madre non prendono parte al corteo nuziale. Ad accoglierla all’entrata del paese dello sposo c’erano le donne della famiglia dello sposo, che, attraverso il matrimonio, acquisiscono una nuova donna in casa. La sposa viene accolta con canti e danze e accompagnata così fino a casa dello sposo. Lo sposo dalla propria casa cerca di vedere “di nascosto” la sposa attraverso un anello pronunciando una formula rituale di buon auspicio. A quel punto la sposa entra nella casa dello sposo e riceve offerte dai testimoni dello sposo che “riempiono” di soldi le sue scarpe fino a quando “potrà calzarle”. La sposa per la maggior parte del tempo tiene gli occhi bassi e non sorride, per mostrare la tristezza di abbandonare la propria famiglia e la propria madre, mentre la suocera celebra la sua gioia nell’aver acquisito una nuora.

I festeggiamenti durano per tre giorni, le donne indossano vestiti tradizionali ricamati a mano e la comunità si riunisce attorno agli sposi riconoscendo e benedicendo la loro unione.

Riflettendoci, viene da pensare che questi matrimoni estivi – così come altre festività importanti che gli immigrati continuano a celebrare nel paese di origine – servono in un certo senso, soprattutto alle prime generazioni, per espiare la colpa per l’emigrazione e controbilanciare l’effetto perturbatore suscitato dall’emigrazione, specialmente quella dell’intera famiglia. Come direbbe il sociologo algerino Abdelmalek Sayad (2002, p. 311), infatti “emigrare significa sempre anche “disertare”, “tradire”. In un certo modo significa indebolire la comunità da cui ci si separa, anche quando paradossalmente lo si fan invece per rinforzarla, per favorire la sua prosperità. Così, , si è sospettato che l’emigrazione contenesse i rischi di una “rottura con lo spirito” e non soltanto con il corpo”.

I momenti di festa e le celebrazioni importanti per la comunità, e in particolare i matrimoni, “sacralizzano (nel senso forte del termine) la comunità e l’appartenenza indefettibile (un tipo di fedeltà assoluta) alla comunità in quanto gruppo sociale e “sacralizzano a loro volta il gruppo in quanto struttura o insieme di strutture comunitaria -. “Sacralizzare” i dispersi legami che uniscono tra loro i vari membri della comunità, soprattutto quando sono dispersi, e i legami che li uniscono alla comunità, soprattutto quando ne son separati, serve, sempre secondo il sociologo, “per poter esorcizzare il demone della contaminazione “sovversiva” a cui l’emigrazione espone e che la naturalizzazione consacra”.

Se questo è vero per le prime generazioni, per le seconde generazioni, invece, Secondo alcuni studiosi, i legami etnici e l’intensità dei legami transnazionali si ridurrebbero nel passaggio tra generazioni, anche se Ambrosini (2008) ha recentemente invitato a considerazione la seconda generazione come il “test del transnazionalismo “: Secondo Levitt (2009, p. 1226), infatti, se è vero che i figli degli immigrati non parteciperanno probabilmente nei loro paesi di origine con le stesse modalità e con la stessa regolarità dei genitori, “non è da respingere completamente l’effetto potenziale di essere cresciuti in un campo sociale transnazionale”. Sarà solo tra qualche anno che potremmo vedere se le seconde generazioni saranno state in grado di costruire il proprio futuro, la propria identità e i propri legami in modo autonomo e consapevole (e non solo come eredità e colpa ereditata dai propri genitori).

Riferimenti:

Ambrosini M. (2008), Un’altra globalizzazione. La sfida delle migrazioni transnazionali, Il Mulino, Bologna.

Levitt P. (2009), “Roots and Routes: Understanding the Lives of the Second Generation Transnationally”, Journal of Ethnic and Migration Studies, Vol. 35, No. 7, August 2009, pp. 1225-1242.

Sayad A. (2002), La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze
dell’immigrato, Cortina Raffaello, Milano.