Di Ferruccio Pastore, pubblicato sul sito della rivista Eutopia magazine il 9 aprile 2014
Le migrazioni emergono sempre più spesso come un fattore di tensione, non solo tra gruppi e tra partiti, nelle arene politiche nazionali, ma anche tra stati, all’interno della stessa Unione europea.
Partiamo da due esempi recenti.
Primavera 2011: la Francia di Sarkozy blocca temporaneamente la circolazione ferroviaria alla frontiera con l’Italia. Un gesto diplomatico dirompente, per protestare contro la scelta di Roma di concedere un permesso di soggiorno temporaneo, che consente la circolazione in Europa, ai tunisini sbarcati a Lampedusa nelle settimane precedenti. Circa 25.000 ragazzi, che hanno approfittato del temporaneo collasso dei controlli prodotto dal crollo del regime di Ben Ali per cercare pace e fortuna altrove, rivelano quanto siano fragili le basi di fiducia su cui si fonda lo spazio “senza frontiere” di Schengen.
Marzo 2013: i quattro ministri dell’interno di Austria, Germania, Paesi Bassi e Regno Unito indirizzano una lettera ufficiale alla Presidenza dell’Unione, denunciando presunti abusi sistematici della libertà di movimento da parte di cittadini europei che si sposterebbero solo per spillare benefici ai welfare di destinazione. Un tabù è rotto; altri si infilano nello spazio mediatico aperto: a novembre 2013, il premier britannico Cameron annuncia una serie di misure (solo in parte compatibili con i trattati in vigore) per limitare mobilità e diritti. La tempistica non è casuale: mancano pochi mesi alla caduta delle ultime restrizioni al libero movimento dei lavoratori bulgari e romeni. La Commissione reagisce a muso duro, mostrandosi intransigente sui principi e fornendo dati che smentiscono l’esistenza di benefit tourism su larga scala. Ma, nel contempo, Bruxelles studia compromessi, per andare incontro alle concrete preoccupazioni di chi governa le città e le regioni dove l’afflusso è maggiore.