di Lorenzo Gabrielli – Ricercatore a GRITIM-UPF e professore associato all’Università Pompeu Fabra di Barcellona; ricercatore associato al Centre Emile Durkheim, Sciences Po Bordeaux.
“Un gruppo di un centinaio di marocchini si è imbarcato a fine marzo su due imbarcazioni gonfiabili per ritornare in maniera clandestina nel loro paese e burlare le restrizioni […]”.
Questo non è un frammento di un racconto distopico, né una parte del libro “Gli Stati Uniti d’Africa” dello scrittore Abdourahman Waberi[1], dove il continente è prospero e alle cui frontiere cercano di introdursi migranti e profughi in fuga da un’Euroamerica impoverita, ma semplicemente un estratto di un articolo del quotidiano spagnolo El Pais, pubblicato nell’aprile 2020. La sorpresa non finisce qui e addirittura, le forze di polizia spagnole hanno bloccato dei marocchini che tentavano di uscire dal territorio spagnolo per entrare in Marocco. Se qualcuno lo avesse detto sei mesi fa, non avremmo mai creduto che ciò potesse succedere. Tale cambio repentino dei flussi migratori e della direzionalità del controllo della frontiera è solo uno, anche se forse il più paradigmatico, degli effetti prodotti dall’epidemia di Covid-19 sui movimenti di persone e sulla politica migratoria e di controllo delle frontiere tra la Spagna ed il Marocco.
Questi effetti si materializzano soprattutto a Ceuta e Melilla, le due enclaves spagnole in territorio marocchino che da decenni rappresentano un osservatorio privilegiato per analizzare le ambiguità della politica migratoria spagnola ed europea, così come lo stato di eccezione prodotto dalle politiche di confine. Queste due propaggini iberiche sul continente africano che, ricordiamolo, costituiscono le due uniche frontiere terrestri esistenti tra l’Europa e l’Africa, erano già due casi molto particolari prima dell’epidemia di Covid-19,[2] ma lo sono diventate ancor di più dopo, anche se in modi differenti e a volte decisamente inaspettati e sorprendenti.
La sovrappopolazione nel CETI di Melilla
Un primo effetto di questi mesi di pandemia è stato la concentrazione elevatissima di persone in alcuni centri per migranti, diventati così luoghi di concentrazione e dumping dove gli standard sanitari imposti alla popolazione spagnola non appaiono pienamente rispettati. Un esempio evidente è il CETI (Centro di permanenza temporaneo per immigrati) di Melilla, formalmente aperto ma nei fatti parzialmente chiuso, visto che è molto complicato ottenere un lasciapassare per uscire da Melilla e viaggiare verso la Spagna continentale. I migranti entrati in modo irregolare e i richiedenti asilo possono passare molti mesi ed in alcuni casi anche anni qui, fino a quando i primi ricevono un ordine di espulsione e, paradossalmente, un annesso lasciapassare per uscire dall’enclave, o quando la domanda di asilo dei secondi è accolta. Dalla dichiarazione dello “stato di urgenza” da parte del governo spagnolo a causa della pandemia il 13 marzo 2020, 1600 persone, tra cui 400 donne e bambini, sono ospitate in uno spazio adibito a meno della metà della sua capienza attuale. Il centro è quindi estremamente sovrappopolato, anche per gli standard pre-Covid, e ciò genera una situazione molto grave dal punto di vista umanitario e sanitario. Il Defensor del pueblo (Ombudsman) e varie organizzazioni della società civile chiedono da tempo la ricollocazione di queste persone in strutture di accoglienza nella Spagna continentale, dove la salute dei migranti e quella della collettività possano essere salvaguardate meglio. Il 22 aprile il governo spagnolo ha consentito il trasferimento alla penisola di 60 delle persone presenti nella struttura, mentre per la seconda uscita si è dovuto attendere fine maggio, quando altre 136 persone hanno potuto lasciare il CETI di Melilla.
Il confinamento di fatto obbligatorio nel CETI appare sorprendente e difficile da giustificare alla luce di parametri di ragionevolezza, se si pensa che tutti gli otto CIE (Centri per il trattenimento degli stranieri) operativi nella penisola e nelle isole spagnole sono stati gradualmente (e al 6 maggio completamente) svuotati, visto che il rimpatrio forzato delle persone ivi rinchiuse risultava impossibile a causa delle restrizioni alla mobilità internazionale e che quindi i rischi prodotti dalle condizioni sanitarie sarebbero stati “inutili”.
Il caso del CETI di Melilla in queste settimane, o di Ceuta in altri momenti, sono dei casi unici, ma al tempo stesso riflettono una tendenza più vasta esemplificata, in scala maggiore, dai campi greci di Lesvos e Chios, dove le persone rinchiuse sono praticamente abbandonate al pericolo dell’epidemia.
Nelle due città spagnole nel continente africano bisogna segnalare anche i casi molto complicati dei minori non accompagnati – tanto quelli residenti nei centri per minori che quelli che vivono all’addiaccio, in costruzioni di fortuna o in qualche rudere abbandonato – e delle persone che sono scappate dal CETI per il timore di contagio. Anch’essi vivono in qualche casa semi abbandonata o in baracche di autocostruzione.
Bloccati nel CETI e nell’enclave di Melilla vi sono anche circa 600 cittadini tunisini, in situazione irregolare in Spagna, ai quali non si concede di uscire dalla città e per i quali il governo cerca da settimane di trovare un accordo con le autorità di Tunisi per effettuare la loro espulsione. Appare interessante rilevare la differenza di trattamento tra i cittadini marocchini in Spagna, che vogliono tornare nel loro paese d’origine, ed i quasi 600 tunisini presenti nel CETI di Mellilla, che non vogliono partire, ma che il governo spagnolo sta cercando di rimpatriare.
Quali elementi politici e strategici possono giustificare una tale differenza di trattamento? E perché dopo anni di tentativi di incoraggiare i ritorni “volontari” dei marocchini in Spagna, e di deportazioni forzose, il governo spagnolo non interviene, anzi blocca i tentativi di attraversare la frontiera fuori dai punti di transito adibiti, o si limita a creare alcune strutture di ospitalità, peraltro con condizioni igienico-sanitarie estremamente precarie? Delle richieste in questo senso potrebbero essere pervenute dal Marocco e l’azione di Madrid potrebbe quindi spiegarsi con la volontà di non guastare le dinamiche esistenti di cooperazione nel controllo dei transiti informali verso la Spagna ed in materia di “devoluciones en caliente” (pushback di gruppo).
L’emergere di nuove migrazioni forzate di ritorno
Come anticipato, a causa dell’epidemia, si producono delle “migrazioni forzate di ritorno”, cioè dei movimenti d’immigrati presenti in Europa verso i loro paesi di origine, tanto all’interno dell’UE che verso l’esterno, indotte dal timore del contagio, dagli effetti economici immediati e a breve termine del lockdown o dal desiderio di sostenere i propri familiari in un momento complesso.
In effetti, l’epidemia di Covid-19 ha prodotto un repentino cambio di polarità tra Ceuta e Melilla ed il territorio marocchino. I cittadini marocchini bloccati a Ceuta e Melilla cercano in vari modi di attraversare la frontiera nella direzione opposta a quella cui siamo abituati da vari decenni, almeno da dopo il 1991, quando la firma del trattato di Schengen da parte spagnola implicò l’obbligo di visto per i cittadini marocchini diretti in Spagna. In presenza di una domanda economica, alcune reti di facilitatori si sono rapidamente messe in funzione, questa volta per favorire il passaggio della frontiera in direzione nord-sud. Secondo fonti di stampa, i prezzi per attraversare la frontiera via mare ed arrivare in Marocco possono arrivare addirittura a più di 5000 euro, mentre normalmente per il tragitto inverso costa tra i 400 ed i 1000 euro. A inizio aprile, cinque giovani marocchini hanno addirittura tentato di tornare a nuoto, partendo dalla spiaggia del Tarajal di Ceuta. Quattro di loro sono riusciti ad arrivare in territorio marocchino, dove sono stati arrestati dalle autorità locali, mentre il quinto è stato arrestato dalla Guardia Civil spagnola.
Quel che potrebbe sembrare un aneddoto, in realtà, è parte di un fenomeno più ampio. La chiusura delle frontiere marocchine, decretata senza alcun preavviso il 14 marzo, ha in pratica impedito di ritornare ad almeno 28.000 cittadini del paese residenti all’estero. Alcune di queste persone, tra cui alcune partite dall’Italia,sono rimaste bloccate ad Algeciras, in Andalusia, dal cui porto partono i collegamenti con Tangeri e Ceuta.
I cittadini marocchini bloccati in Europa si sono rivolti direttamente al re e al governo con lettere e appelli in rete. Il capo del governo di Rabat, Saadeddine El Othmani, si è limitato a dichiarare alla televisione pubblica marocchina che “appena si prenderà la decisione di aprire le frontiere, torneranno”. La Segretaria di Stato marocchina agli Affari Esteri, Nezha El Ouafi, a metà aprile ha affermato che non ci saranno rimpatri fino a quando la crisi sanitaria non sarà risolta, e ha chiesto ai compatrioti bloccati all’estero “pazienza” e “sacrifici”. Altre manifestazioni si sono svolte davanti ai consolati marocchini nelle principali capitali europee, ma per ora senza risultati, salvo il rimpatrio di un piccolo gruppo di circa cinquecento persone da Ceuta e Melilla a fine maggio.
In effetti, il governo marocchino ha agito in modo contradditorio: ha permesso il rimpatrio di 84.449 turisti stranieri bloccati nel paese, ma non ha applicato nessuna reciprocità ai suoi cittadini all’estero. É una scelta sorprendente, per un paese che da decenni considera il mantenimento di un legame forte con i propri cittadini all’estero un’importante priorità. In questo senso, ci si può legittimamente chiedere perché il Marocco non abbia organizzato dei rimpatri controllati dei propri cittadini come hanno fatto i paesi europei. A questo proposito, un ingegnere marocchino bloccato all’estero spiega: “noi siamo psicologicamente distrutti […]. Ci sentiamo umiliati quando vediamo gli altri paesi che rimpatriano i propri nazionali, anche dal Marocco”.
La perturbazione dei flussi transfrontalieri esistenti
La chiusura della frontiera del Marocco ha bloccato completamente anche i flussi quotidiani transfrontalieri di lavoratori marocchini e di porteadoras, le donne che trasportano ogni giorno dei fardelli enormi di merci dal lato spagnolo a quello marocchino delle due enclave. Sorprendentemente, in una zona dove le frontiere sono strettamente controllate, non esistono cifre ufficiali rispetto a questi flussi, stimati tra le 15 e le 20 mila persone al giorno. Per le due città e le regioni circostanti, questi scambi “atipici”, come vengono spesso definiti, inciderebbero tra il 15 ed il 25% del prodotto interno lordo. Si tratta di un fenomeno poco visibile fuori dalle due città in tempi normali, che la pandemia sta rendendo più evidente.
A causa della chiusura della frontiera marocchina, a Melilla sono rimasti bloccati circa 350 lavoratori marocchini transfrontalieri per i quali le autorità spagnole hanno dovuto cercare delle soluzioni, che in periodo di quarantena si sono rivelate estremamente precarie. Una situazione simile si è prodotta anche a Ceuta, dove varie centinaia di marocchini sono rimasti bloccati dalla chiusura delle frontiere patrie.
Tra gli effetti forse meno visibili della pandemia di Covid-19, va ricordato anche il caso delle settemila donne marocchine che da anni vengono reclutate come lavoratrici stagionali per la raccolta delle fragole nella zona di Huelva. Se la situazione in Marocco non cambia, allo scadere dei loro contratti nel mese di giugno, queste donne si troveranno bloccate in Spagna senza lavoro e anche senza un alloggio, poiché quest’ultimo è solitamente fornito dal datore di lavoro.
Inoltre bisogna anche pensare alle conseguenze della chiusura della frontiera per i tradizionali ritorni di massa estivi degli emigranti marocchini, ma anche algerini, che vivono in Europa. Ogni estate, tra luglio e agosto, più di 3 milioni di persone (e 750.000 automobili) convergono da tutta Europa verso i porti spagnoli, in particolare quello di Algeciras nello stretto di Gibilterra, per andare a passare le vacanze estive nel loro paese di origine e compiere poi il tragitto inverso a fine estate. In questa situazione, questi movimenti saranno impossibili, con serie conseguenze sul piano umano ed economico. Per il momento, le autorità spagnole hanno comunicato che il piano “OPE” (Operazione passaggio dello Stretto), che ogni anno dal 15 giugno al 15 settembre controlla e ordina questo flusso, sarà sospeso o fortemente modificato.
Quali conseguenze per i flussi Nord-Sud?
Per finire, è inevitabile interrogarsi sull’impatto della crisi sanitaria sui flussi migratori “classici” e più visibili mediaticamente e politicamente, cioè quelli provenienti dai paesi dell’Africa subsahariana. I tentativi di entrare in Spagna dal territorio marocchino, a Ceuta e Melilla o nella costa nord dello Stretto di Gibilterra, sembrano al momento quasi completamente bloccati. Ciò si deve principalmente al rafforzamento dei controlli da parte marocchina, non più solo in uscita, ma anche in ingresso.
Se allarghiamo lo sguardo, vediamo che invece gli arrivi di migranti sembrano continuare nell’arcipelago delle Canarie, territori insulari spagnoli situati nell’Oceano Atlantico. Ciò evidenzia una profonda differenza tra le dinamiche e le rotte migratorie in provenienza dai paesi dell’Africa subsahariana. Forse incide anche il fatto che la rotta migratoria che collega la costa atlantica marocchina e del Sahara occidentale alle Isole Canarie è unidirezionale, cioè non è percorsa da quelli che abbiamo chiamato “migranti forzati di ritorno”. Questo fa sì che al momento sia meno controllata della rotta del Mediterraneo occidentale, oggi ritenuta “a rischio” in entrambe le direzioni.
Tra l’altro, è necessario porre l’accento sul fatto che l’epidemia produce gravi effetti per i migranti in provenienza dall’Africa subsahariana non solo alle frontiere, ma anche all’interno del territorio marocchino. Ad esempio, varie fonti parlano di almeno un centinaio di persone arrestate nelle vicinanze di Nador e deportate alla frontiera con l’Algeria, in pieno deserto, attraverso una frontiera ufficialmente chiusa da moltissimi anni. La situazione è aggravata dal fatto che a questi migranti espulsi in maniera illegittima vengono abitualmente confiscati i telefoni cellulari e i passaporti. Ma anche per i migranti subsahariani che permangono in Marocco la situazione è peggiorata, con una drastica riduzione delle opportunità di lavoro e seri problemi di sostentamento. Fonti marocchine segnalano inoltre (per esempio a Nador) raid delle forze di sicurezza per distruggere gli accampamenti informali dei migranti subsahariani. Queste pratiche non sono per nulla nuove, giacché sia le deportazioni nel deserto sia la distruzione dei campi si sono prodotte quasi costantemente negli ultimi quindici anni. Negli ultimi mesi, queste dinamiche si sono accentuate e i loro effetti per i migranti si cumulano con quelli prodotti dal Covid-19, rendendo la loro situazione estremamente difficile e pericolosa.
In conclusione, in questa congiuntura senza precedenti, vediamo emergere nuove logiche migratorie e un “malfunzionamento” della frontiera, che rendono ancora più evidenti alcune contraddizioni di fondo delle politiche migratorie lungo una delle frontiere più controllate d’Europa.
Si osserva un rovesciamento della polarità migratoria. Appaiono nuove migrazioni di ritorno che potremmo definire forzate, finalizzate a sottrarsi non solo agli effetti sanitari della pandemia, ma anche ai suoi devastanti contraccolpi economici e sociali. Questi movimenti si ritrovano però bloccati in un cul de sac, principalmente nel Sud della Spagna (Algeciras) e nelle enclave di Ceuta e Melilla. Si registrano poi dinamiche più localizzate e specifiche, che interessano tra gli altri i lavoratori transfrontalieri, le lavoratrici stagionali e i minori non accompagnati.
Tutto ciò porta, per un verso, all’inasprimento di disfunzioni esistenti (come avviene con il sovraffollamento dei centri di detenzione nelle enclave, in plateale contraddizione con lo svuotamento dei CIE del resto della Spagna). Un secondo elemento di contraddizione, forse meno evidente ma meritevole di essere segnalato, è legato alle differenti logiche che le autorità spagnole applicano ad alcune categorie di migranti (in particolare i tunisini), che tuttora si cerca di rimpatriare, mentre per altri (i marocchini) ci si oppone al rimpatrio. Un ultimo elemento di contraddizione emerge dalla posizione del Marocco, che da una parte facilita i ritorni degli stranieri presenti sul suo territorio, ma dall’altra non solo non organizza dei ritorni controllati per i propri connazionali, ma in pratica rifiuta anche il loro diritto al ritorno, diritto che è riconosciuto in campo internazionale dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 (art.13).
[1] AbdourahmanWaberi, Gli Stati Uniti d’Africa, Feltrinelli, 2009.
[2] A questo riguardo si può consultare il libro di Ferrer-Gallardo, X. e Gabrielli. L. (ed), Estados de excepción en la excepción del estado, Barcelona: Icaria, 2018 [prossimamente disponibile in italiano].