di Ferruccio Pastore*
Due interessanti studi appena pubblicati dallo European Policy Centre (EPC) di Bruxelles (Making progress towards the completion of the Single European Labour Market e Intra-EU mobility: the ‘second building block’ of EU labour migration policy) forniscono l’occasione di tornare sul tema affrontato di recente da Ettore Recchi.
Come mostrano alcune ricerche in corso, la crisi sta ridisegnando in profondità la geografia europea delle politiche degli ingressi per motivi di lavoro. Paesi come la Spagna, il Regno Unito, la stessa Italia, che fino al 2007 si erano affermati, seppure in forme assai diverse, come i più aperti, si sono convertiti a una linea di (più o meno effettiva) chiusura. D’altro canto, paesi tradizionalmente cauti in materia, come la Germania e la Svezia, intensificano la sperimentazione di approcci più proattivi e aperti. Questa diversificazione delle risposte, comprensibile e per molti versi opportuna vista la diversità delle situazioni economiche sottostanti, è resa possibile dal pieno controllo che gli stati membri, anche nell’Europa timidamente ridisegnata dal trattato di Lisbona, conservano sui flussi legali di lavoratori da paesi terzi.
Meno sovranità, più libertà
E’ invece assai più ridotto, per non dire quasi inesistente, il margine di sovranità che gli stati mantengono sui movimenti di lavoratori all’interno dello spazio comunitario. Peraltro, come sintetizzano bene i dati forniti da Recchi nel suo articolo, questi movimenti, rimasti di entità limitata per tutti gli anni Novanta, hanno subito una decisa impennata nel nuovo secolo. Inoltre, nonostante la frenata imposta a questi flussi dalla crisi, sviluppi imminenti potrebbero contribuire a tenere viva la mobilità est-ovest: alla fine del 2013, i cittadini di Romania e Bulgaria acquisteranno piena libertà di movimento anche verso gli ultimi stati membri – Germania in primis – che ancora la sottopongono a restrizioni, avvalendosi di tutte le opportunità dilatorie offerte dai trattati di adesione. Prima ancora, nel luglio di quest’anno, la Croazia diventerà il ventottesimo stato dell’Unione, con un potenziale migratorio che, per quanto presumibilmente assai limitato, genera comunque preoccupazione in alcune capitali.
In questo contesto, non deve stupire che la libertà di movimento sia oggetto di controversie sempre più accese. Da un lato, i ministri dell’interno di alcuni paesi importanti si sono schierati, chiedendo deroghe restrittive per contrastare forme di “benefit tourism”, di cui si afferma la tendenza alla crescita senza peraltro fornire alcuna evidenza empirica. Dal canto suo, la Commissione europea abbraccia una linea opposta, proponendo un’articolata azione di sostegno alla mobilità dei giovani europei come componente importante di una strategia anti-crisi. Una strategia che prenderebbe atto della crescente polarizzazione economica dell’UE, pur senza rinunciare a ridurla nuovamente nel medio-lungo periodo.
Alcuni studi recenti, come quello di Yves Pascouau citato all’inizio, vanno oltre, sottolineando i benefici che verrebbero da un rafforzamento delle opportunità, oggi limitatissime, di “mobilità secondaria” anche per i lavoratori di paesi terzi legalmente residenti in un paese UE, che intendano ri-emigrare verso un altro stato membro dove siano maggiori le chance di impiego.
Libertà o necessità?
Intorno alla mobilità all’interno dell’Unione, nelle sue diverse forme, si sta dunque svolgendo una partita sempre più complessa e combattuta. Ai due capi dell’orizzonte, vi sono scenari opposti: da un lato, quello di un’Europa che rimanga “mercato unico” solo per merci e servizi, con il rischio conseguente di un ulteriore drammatico crollo di legittimità tra i cittadini dei paesi relegati in periferia. Dall’altro lato, vi è il rischio opposto, di un’Europa che si arrenda alla tendenza polarizzante, imponendo di fatto ai cittadini dei paesi più deboli di assorbire loro lo shock asimmetrico della crisi, migrando.
Tra questi due scenari estremi, vi è quello di un’Unione che preservi e perfezioni quel suo cardine prezioso che è la mobilità interna, facendo il possibile perché rimanga una libertà e non (ri)diventi una necessità di massa. Nelle parole del Commissario europeo per l’occupazione, László Andor, alla presentazione del rapporto EPC: “se facessimo affidamento sulla mobilità dei lavoratori come canale principale di aggiustamento economico all’interno di una unione monetaria incompleta, ci avvicineremmo pericolosamente a una forma di mobilità forzata, non giuridicamente ma economicamente forzata”.
La UE si trova dunque a un bivio, tra il rilancio della libertà di movimento e il suo depotenziamento, o addirittura smantellamento progressivo. Le scelte fatte avranno una valenza e un impatto molto diversi, a seconda che siano accompagnate o meno da politiche mirate ed efficaci di contrasto alla disoccupazione giovanile nei paesi periferici, da cui l’emigrazione è in ripresa. In ogni caso, le scelte fatte avranno implicazioni di particolare importanza per l’Italia, in quanto uno dei paesi che hanno beneficiato di più della mobilità intra-europea, storicamente in uscita, più recentemente in entrata. Per questo, è auspicabile che il dibattito sulle politiche migratorie e di mobilità, nella loro dimensione nazionale come in quella europea, esca dal cono d’ombra in cui è stato confinato negli ultimi anni da un intreccio di ideologismi, emergenzialismi e visioni riduttive delle priorità reali del paese.
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