di Emanuela Roman – Ricercatrice FIERI
Quando l’epidemia da COVID-19 ha iniziato a diffondersi a livello globale, tra le prime misure prese dagli stati ci sono state le limitazioni agli spostamenti, la chiusura delle frontiere, la sospensione dei collegamenti internazionali. Ma quelle stesse restrizioni alla mobilità internazionale che per alcuni rappresentano uno spiacevole inconveniente e per altri un problema di sussistenza, per qualcuno in Europa possono rappresentare un’occasione di libertà. Si tratta di quei cittadini di paesi terzi che sono soggetti al trattenimento presso centri di detenzione amministrativa in attesa di essere rimpatriati nel proprio paese d’origine, in quanto privi di un titolo di soggiorno valido.
Come prevede la normativa europea, e nello specifico la Direttiva Rimpatri (Direttiva 2008/115/CE, art. 15), queste persone possono essere private della libertà personale in presenza di determinate circostanze (quali il rischio di fuga) per il tempo strettamente necessario a, e ai soli fini di, organizzare e realizzare il loro rimpatrio. Nel contesto attuale, però, le restrizioni alla mobilità internazionale rendono impraticabile la quasi totalità dei rimpatri. E’ dunque legittimo trattenere persone che ad oggi è impossibile rimpatriare, e per le quali è difficile prevedere in maniera verosimile le tempistiche di un futuro rimpatrio?
Si tratta di una domanda che si stanno ponendo in molti in Europa. Nelle ultime settimane sono andate moltiplicandosi non solo le prese di posizione e gli appelli di organizzazioni della società civile come PICUM, Human Rights Watch o ASGI (che assieme a numerose altre associazioni italiane ha inviato una lettera a Ministro dell’Interno, Questure e Prefetture e una lettera ai Giudici di Pace), ma anche i richiami di organismi nazionali di tutela come il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale in Italia, il suo omonimo francese, o il Defensor del Pueblo in Spagna, e di organizzazioni internazionali come il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, la Commissaria per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, il Sottocomitato delle Nazioni Unite per la prevenzione della tortura, e UNHCR, IOM, WHO e OHCHR in un comunicato stampa congiunto.
In tutti gli appelli al rilascio dei migranti trattenuti – vengano essi da organizzazioni della società civile o da attori istituzionali – due sono i punti ricorrenti: 1) l’illegittimità del trattenimento qualora non vi siano concrete prospettive di rimpatrio; 2) la necessità di tutelare in via preminente il diritto alla salute, che si scontra in molti casi con la difficoltà o l’impossibilità di adottare le necessarie misure igienico-sanitarie di prevenzione del contagio e di distanziamento sociale all’interno dei centri di detenzione amministrativa.
Relativamente al primo punto, occorre ricordare che la stessa Direttiva Rimpatri, all’art. 15 par. 4, prevede che: “Quando risulta che non esiste più alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento […] il trattenimento non è più giustificato e la persona interessata è immediatamente rilasciata”. Relativamente al secondo punto, in Italia le circolari emanate dal Ministero dell’Interno relative agli “interventi di prevenzione della diffusione del virus COVID-19 nell’ambito dei Centri di permanenza per il rimpatrio” (CPR) prescrivono misure piuttosto blande – quali garantire adeguata informazione, materiale per l’igiene personale e adeguata pulizia dei locali (circolare 5587 del 5 marzo), una distanza di due metri durante i colloqui (circolare 5897 del 10 marzo), il monitoraggio costante delle condizioni di salute dei trattenuti (circolare 3567 del 26 marzo). Inoltre, stando alle informazioni riferite dall’interno di alcuni centri e riportate anche dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, tali misure non sembrano essere sempre messe in pratica nelle modalità descritte – con riferimento ad esempio alla fornitura di dispositivi di protezione individuale ai trattenuti, all’isolamento dei nuovi ingressi, o alla continuità delle visite dall’esterno. Altri limiti sono di natura strutturale: è davvero possibile, ad esempio, mantenere il distanziamento sociale tra sette persone in un prefabbricato di 48 m2 bagno incluso, come nel caso del CPR di Torino?
Un’argomentazione basata su questi due punti ha caratterizzato anche le pronunce dei Tribunali di Trieste (18 marzo) e di Roma (18 e 27 marzo), che in tre casi distinti hanno stabilito di non convalidare, di non prorogare e di cessare (su riesame) il trattenimento di tre cittadini stranieri richiedenti asilo, trattenuti nei CPR di Gradisca d’Isonzo e Roma. I giudici di Roma, per esempio, hanno argomentato su due piani. In primo luogo, hanno sostenuto che “l’emergenza sanitaria in atto […] impone di interpretare tutte le norme in materia in termini restrittivi, dovendosi operare un bilanciamento tra tali norme ed il diritto alla salute costituzionalmente e convenzionalmente garantito ad ogni persona comunque presente sul territorio” e che “la privazione della libertà personale in spazi ristretti rende oltremodo difficoltoso garantire le misure previste a garanzia della salute dei singoli”. In secondo luogo, hanno sottolineato come “le disposizioni limitative degli spostamenti dal territorio nazionale impedirebbero, comunque, il rimpatrio della richiedente e l’esecuzione del provvedimento di espulsione” (si veda anche l’analisi di Caprioglio e Rigo).
Ha destato particolare preoccupazione la notizia di un caso di positività al virus COVID-19 all’interno del CPR di Gradisca, di cui è stata data notizia il 26 marzo. Anche in seguito a questo episodio, e a sostegno dei numerosi appelli della società civile, il 30 marzo il deputato Riccardo Magi ha presentato un’interpellanza parlamentare per chiedere delucidazioni al Governo in merito alle iniziative adottate in ciascun CPR per monitorare la condizione di salute delle persone trattenute e in merito alla possibilità che vengano adottate iniziative finalizzate alla sospensione dei nuovi ingressi e all’attivazione di misure alternative al trattenimento, anche nei confronti dei soggetti già trattenuti. Nel frattempo, i casi positivi nel CPR di Gradisca sono diventati cinque (al 24 aprile).
In Italia la durata massima della detenzione amministrativa è oggi di 6 mesi (12 per i richiedenti asilo che hanno presentato domanda nel CPR). A prolungare i tempi del trattenimento è stato nell’ottobre 2018 il Decreto Immigrazione e Sicurezza (D.l. 113/2018 convertito in L. 132/2018), dopo che nel 2013 erano finalmente stati ridotti da 18 a 3 mesi. Nel paese sono attualmente attivi nove CPR, per una capacità stimata di circa 600 posti effettivi. Sulla base dei dati messi a disposizione dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, nell’ultimo mese e mezzo c’è stata una graduale ma costante diminuzione del numero dei trattenuti – da 425 il 12 marzo, a 250 il 24 aprile (- 41%). Non vi sono stati rilasci collettivi, ma piuttosto rilasci individuali basati su una valutazione caso per caso da parte o dell’autorità amministrativa o dell’autorità giudiziaria in sede di convalida o proroga. Il calo si deve anche all’esiguo numero di nuovi ingressi disposto dalle Questure – circa 32 dal 15 marzo al 17 aprile, secondo quanto riporta il Garante.
Anche gli altri paesi europei sembrano prediligere la linea dei rilasci graduali, basati su una valutazione caso per caso delle condizioni di salute del trattenuto, della situazione igienico-sanitaria nello specifico centro e soprattutto dell’impossibilità di effettuare il rimpatrio in tempi rapidi – circostanza che assume particolare rilievo nei casi in cui il trattenuto è prossimo al termine massimo del proprio trattenimento.
In Belgio, le autorità hanno disposto il rilascio di 300 trattenuti (circa la metà del totale) e la sospensione di nuovi ingressi per l’impossibilità di rispettare le misure di distanziamento sociale richieste per evitare il diffondersi dell’epidemia. Nel Regno Unito, in seguito ad un’azione legale avviata dall’ONG Detention Action, il governo ha disposto il rilascio di più di 300 persone considerate maggiormente a rischio di contrarre l’infezione. Le autorità inglesi si sono inoltre impegnate a sottoporre a urgente revisione tutte le misure di trattenimento in atto (più di 700) al fine di valutare ulteriori rilasci e hanno disposto il divieto di trattenimento di persone passibili di rimpatrio verso 49 paesi (tra cui Giamaica, India, Pakistan, Iraq, Sudan e Albania). Tanto in Belgio quanto nel Regno Unito, però, dell’ordine di rilascio non hanno beneficiato i migranti con precedenti penali.
In Spagna, a partire dal 20 marzo le autorità hanno iniziato a rilasciare i trattenuti presenti nei sette centri di detenzione amministrativa (CIE) del paese, sulla base di una valutazione caso per caso della situazione personale e dell’effettiva possibilità di rimpatrio. Il processo è stato graduale ma relativamente rapido: prima che il governo spagnolo dichiarasse lo stato di allarme il 13 marzo, i CIE erano occupati per il 59% della loro capacità; la percentuale già a fine marzo era scesa al 25%, la prima settimana di aprile al 9% ed è oggi prossima allo zero. L’intenzione esplicitamente dichiarata dal Ministro dell’Interno a inizio aprile è infatti quella di rilasciare tutti i migranti e di chiudere temporaneamente tutti i CIE.
Il caso spagnolo è particolarmente interessante, perché si è potuto osservare un processo collaborativo che ha coinvolto tutti gli attori (istituzionali e non) nell’organizzazione di un rilascio ordinato e sicuro delle persone trattenute. Fin da subito il Defensor del Pueblo, rappresentando le istanze della società civile organizzata, ha avviato un’interlocuzione permanente con le autorità politiche, amministrative e giudiziarie. Il fatto che il periodo massimo di trattenimento in Spagna sia di soli 2 mesi ha probabilmente contribuito al rapido raggiungimento di un accordo sull’impossibilità di eseguire rimpatri entro tale orizzonte temporale. Al processo di rilascio oltre alle autorità di polizia responsabili dei centri e ai giudici deputati al controllo su di essi, hanno contribuito anche le autorità locali. Inoltre, tutte le persone rilasciate prive di un domicilio presso cui rientrare sono state prese in carico in maniera coordinata dai servizi territoriali pubblici e da associazioni con cui il Ministero dell’Interno ha sottoscritto una specifica convenzione.
Un argomento che viene spesso sollevato contro il rilascio dei migranti trattenuti riguarda proprio il “dopo”. Per chi non ha una casa, una famiglia o una rete di amici a cui fare riferimento, c’è il rischio concreto di finire per strada e di trovarsi a vivere in una condizione di marginalità che è ancor più pericolosa (per sé stessi e per gli altri) nel contesto dell’attuale emergenza sanitaria. Un approccio community-based come quello realizzato in Spagna sembra una soluzione promettente: sebbene sviluppatosi in un contesto di crisi, potrebbe consolidarsi e rappresentare anche per il futuro una valida alternativa alla detenzione amministrativa degli stranieri – eventualmente replicabile anche in un paese come l’Italia.
E’ la stessa Direttiva Rimpatri all’art. 15 par. 1 a stabilire che gli stati possono disporre il trattenimento “salvo se nel caso concreto possono essere efficacemente applicate altre misure sufficienti ma meno coercitive”. Questa formulazione intende chiaramente dare la priorità a misure meno coercitive della privazione della libertà personale, che dovrebbe sempre essere una misura di ultima istanza. Nella legislazione italiana questa norma è stata trasposta nell’art. 14 comma 1-bis del Testo Unico Immigrazione (D.lgs. 286/1998), in base al quale, se lo straniero è in possesso di passaporto valido, il Questore può disporre al posto del trattenimento “una o più delle seguenti misure:
- consegna del passaporto o altro documento equipollente in corso di validità, da restituire al momento della partenza;
- obbligo di dimora in un luogo preventivamente individuato, dove possa essere agevolmente rintracciato;
- obbligo di presentazione, in giorni ed orari stabiliti, presso un ufficio della forza pubblica territorialmente competente”.
Sebbene sulla carta esista la possibilità di ricorrere a misure alternative al trattenimento, da un lato, il requisito del passaporto la rende applicabile in un numero molto limitato di casi, dall’altro, nella prassi delle Questure essa viene tendenzialmente scartata: il ricorso alla detenzione amministrativa è pressoché automatico. In alcuni paesi europei (Regno Unito, Olanda, etc.) il ricorso a misure alternative al trattenimento è più diffuso. Le esperienze più positive sono quelle in cui alla non detenzione è associato un progetto individualizzato, spesso coordinato da organizzazioni della società civile in cooperazione con le autorità locali e i servizi pubblici del territorio, che coinvolge il migrante stesso in maniera attiva nel cercare una soluzione al proprio caso, possibilmente attraverso un percorso di regolarizzazione.
L’epidemia da COVID-19 può dunque trasformarsi in un’opportunità per sperimentare approcci alternativi alla detenzione amministrativa, basati sulla cooperazione tra attori istituzionali e della società civile e sul coinvolgimento attivo del migrante. Non si tratterebbe di un cedimento di fronte alla causa di forza maggiore che la pandemia evidentemente rappresenta. Al contrario, sarebbe un modo saggio e proattivo di rispondere a tale emergenza, aumentando il nostro grado di conformità sostanziale alla normativa europea. Inoltre, si tratterebbe di un modo concreto di mettere in pratica la raccomandazione contenuta nel Global Compact per le migrazioni delle Nazioni Unite di adottare misure e metodi whole-of-society, cioè basati sul coinvolgimento di attori non istituzionali come condizione di efficacia e di sostenibilità.
Un ringraziamento ad amici, avvocati, attivisti e ricercatori in Italia e in Europa che nel corso dell’ultimo mese hanno condiviso informazioni preziose. Grazie anche agli studenti della Human Rights and Migration Law Clinic di Torino per il lavoro di ricerca che stanno svolgendo su questo tema.