Parlare di razza e razzismo nell’Italia di oggi

Nadeesha Uyangoda in dialogo con Yassin Dia e Giulia Liti

Questa intervista è stata realizzata nell’ambito della rubrica Non Meno Uguale, nella quale FIERI si propone di dialogare con giovani con retroterra migratorio attivamente impegnati in progetti per l’inclusione sociale per riflettere più consapevolmente sulle discriminazioni e le loro conseguenze nell’Italia contemporanea.

Nadeesha Uyangoda è una giornalista italo-srilankese. È autrice del saggio L’unica persona nera nella stanza in cui riflette sul razzismo in Italia. Insieme a Natasha Fernando e Maria Mancuso è speaker di “Sulla razza”, un podcast dedicato all’approfondimento di alcuni termini provenienti dal contesto britannico e statunitense, che riguardano la discriminazione e il razzismo.


YD & GL: Nel 2021 tu, Natasha Fernando e Maria Mancuso avete realizzato il primo podcast che si occupa di razza e di razzismo in Italia, “Sulla razza”. Com’è nata l’idea e come siete riuscite a combinare i vostri diversi background? 

L’idea di “Sulla razza” è nata ascoltando altri podcast, soprattutto americani, dedicati alla questione razziale. In Italia non esistevano molti contenuti divulgativi su questa tematica. Pertanto, ritenevamo fosse estremamente importante avviare una conversazione sulla pervasività del razzismo all’interno dibattito del pubblico italiano. Il progetto è stato realizzato insieme a Natasha Fernando e Maria Mancuso, già conduttrici di S/Confini, un podcast in cui viene offerto un punto di vista particolare sull’Italia di oggi e sull’emigrazione degli italiani all’estero. Si tratta di una sede di discussione in cui le due conduttrici partono dalla propria esperienza, ma vanno al di là, dialogando con ospiti esperti di cittadinanza, multiculturalità, precariato e migrazioni). Due parole su Natasha e Maria. La prima ha conseguito un conseguito un dottorato in comunicazione e media all’università di Westminster, nell’ambito del quale si è occupata di percezioni della migrazione e di discriminazione interiorizzata. La sua formazione accademica è stata molto preziosa alla realizzazione del podcast. Natasha ha offerto una solida base di conoscenze scientifiche sulla terminologia e sulle riflessioni elaborate nel campo degli studi sulla razza e sul razzismo in ambito anglosassone. Maria Catena Mancuso, invece, è una donna italiana e  bianca, ma estremamente attenta a queste tematiche, sulle quali ha offerto un altro punto di vista, che ha potuto arricchire il dialogo. Noi tre abbiamo iniziato a ragionare sul modo per comunicare i nostri contenuti prima che scoppiasse la pandemia. Il formato del podcast è stato scelto sia considerando la precedente esperienza di Natasha e Maria, sia seguendo le previsioni secondo cui dal 2020 ci sarebbe stato un grande sviluppo dei contenuti audio. Questi pronostici sono stati confermati e la popolarità dei podcast è aumentata particolarmente proprio anche durante il periodo pandemico. Nel 2021, inoltre, ho pubblicato il mio libro L’unica persona nera della stanza. Non è stato semplicissimo passare da un lavoro personale e solitario, come quello richiesto dalla scrittura del libro, a un progetto collettivo, relativo all’elaborazione del podcast. Ogni puntata è stata scritta e revisionata da tre persone diverse che dovevano coordinarsi: sono stati necessari momenti di adattamento e di confronto. Ascoltando il podcast si può notare un’evoluzione progressiva dalla prima alla dodicesima puntata: è stato un percorso di crescita, che si riflette in una maggiore armonia nelle puntate finali.


YD & GL: Nel podcast “Sulla razza” avete dedicato attenzione alla terminologia sulla razza proveniente dal contesto anglo-americano. Questa riflessione apre alla difficoltà di tradurre in italiano alcuni concetti importanti relativi alla discriminazione. È utile tradurre questi concetti per inserirli nel dibattito italiano?

Non è sempre possibile tradurre le espressioni terminologiche in uso nella società statunitense e trasferirle meccanicamente nel contesto italiano. Si tratta di termini mobili: i concetti a cui rimandano non sono stabili neanche in quel contesto. Per esempio, il termine black è in discussione anche negli Stati Uniti, soprattutto dopo l’esplosione del movimento Black Lives Matter. La polarizzazione tra bianco e nero non è sufficiente per rappresentare le complessità della discriminazione, poiché non considera le esperienze di altre minoranze, come quella della comunità latina, che è vittima di forte marginalizzazione. Anche in Italia, una rigida divisione bianco/nero, sarebbe inutile: si tratta di una divisione troppo limitante per descrivere la complessità delle minoranze presenti in Italia. Per capire quali termini possono adattarsi al contesto italiano, è necessario tenere conto delle sue peculiarità socio-politiche, anche in prospettiva storica. Si pensi, per esempio, alla relazione tra colonialismo e migrazioni: l’immigrazione in Italia non è limitata a persone provenienti dal corno d’Africa e dagli altri luoghi precedentemente colonizzati. Anzi, la maggior parte dei migranti proviene da contesti altri, per esempio la Cina, lo Sri Lanka o il Bangladesh. Per questo motivo, ritengo che in Italia non si possa pensare al razzismo associandolo esclusivamente alle persone nere afrodiscendenti. Il razzismo può colpire persone con il colore della pelle scura, per esempio quelle provenienti dal subcontinente indiano. Queste persone, nel contesto britannico, vengono descritte con il termine brown. Brown è diverso da black: la distinzione non riguarda tanto il colore della pelle, quanto la cultura e la storia. Nel Regno Unito, brown è un termine molto importante perché legato al passato coloniale britannico, all’occupazione del subcontinente indiano e alle migrazioni di persone provenienti da quest’area che costituiscono una presenza molto numerosa. In Italia, brown è un termine che, per ragioni storiche, non può avere lo stesso rilievo che ha nel contesto britannico. Personalmente, non ho sentito l’esigenza di usarlo. Inoltre, è molto difficile provare a tradurlo, perché la sua traduzione letterale “marrone” sembra avere una valenza dispregiativa. Un interessante tentativo di traduzione è stato fatto nel libro Africani Europei di Olivette Otele (traduzione italiana a cura di Francesa Pe’- ndr ) nel quale si usa “bruno” come aggettivo, in riferimento ai corpi neri e bruni. Altre parole, invece, possono essere utili a stimolare una riflessione più pertinente al contesto italiano. Per esempio la parola token e il suo derivato tokenismo. Token indica letteralmente un pegno, un simbolo al quale viene associato un valore rappresentativo. Il tokenismo è un tentativo simbolico di considerare la diversità per trasmettere un’impressione di inclusività. Tuttavia, il discorso sull’inclusione spesso si ferma a una questione di immagine e non si concretizza in una rappresentanza efficace delle minoranze. C’è una puntata del podcast dedicata a una riflessione su questo termine e su come si manifesta il fenomeno del tokenismo in Italia, con particolare attenzione alla questione della rappresentazione nei media. Emerge il rischio di limitarsi a porre enfasi sulle differenze e rafforzare stereotipi. Questo fenomeno esiste anche nel mondo del lavoro, pur essendo limitato a grandi aziende che hanno attivato una politica di diversità e inclusione. Questi due termini, spesso associati possono rivelarsi insidiosi. Se è più facile quantificare la diversità, è molto più difficile valutare l’inclusione. È importante riflettere sul motivo per cui sia necessario ricorrere a pratiche di inclusione delle minoranze: infatti, possono essere una soluzione per cercare di compensare lo svantaggio delle loro condizioni di partenza. Tuttavia, bisogna sempre stare attenti a osservare la complessità di queste operazioni, per capire quando e come possano valorizzare le minoranze, e quando invece si tratta soprattutto di pratiche performative a scopo di marketing.


YD & GL: Nel tuo libro L’unica persona nera della stanza sottolinei l’importanza di un approccio intersezionale per contrastare le discriminazioni. Che cosa significa praticare un antirazzismo intersezionale? 

Ritengo che l’intersezionalità sia un approccio non  ancora pienamente arrivato in Italia. Una prospettiva intersezionale dovrebbe guardare alle connessioni tra le diverse identità che possono essere oggetto di discriminazione, considerando diversi fattori, tra cui il genere, la razza, la classe. Ritengo, però, che in Italia sia molto difficile attuare questo approccio. Nell’opinione pubblica, per esempio, assistiamo alla diffusa tendenza a ridurre tutto ad un unico fattore: “o sei nero, o sei povero, non entrambe le cose”. È necessario uscire da questa dinamica, perché limita molto la comprensione di una realtà complessa. Invece, è importante sottolineare le connessioni tra la questione razziale e quella economica, approfondendo l’associazione tra persone razzializzate e povertà, degrado urbano, famiglie disfunzionali, che alimenta una doppia discriminazione nei loro confronti. Più in generale, per le persone di origine straniera in Italia è spesso difficile uscire da uno stato di povertà perché le condizioni di partenza sono svantaggiate: instabilità economica, difficoltà nell’ottenere la proprietà della casa o nell’accedere all’affitto. Inoltre, viene frequentemente a mancare il sostegno dei parenti e la rete della famiglia allargata come fonte di supporto economico.

Ho notato che, persino nei progetti di attivismo che dichiarano di assumere una prospettiva intersezionale, la componente di classe non è ritenuta abbastanza importante. Ritengo, tuttavia, che questo elemento debba essere maggiormente preso in considerazione. Ci sono persone che possono permettersi di fare attivismo, perché si trovano in una condizione privilegiata, e altre che non riescono a far sentire la propria voce. Penso, per esempio, alle lavoratrici di cura. Si tratta di donne certamente soggette alla discriminazione: sono immigrate, povere, spesso razzializzate. Nonostante svolgano un ruolo molto utile alla società, raramente hanno la possibilità di raccontare e far emergere il proprio punto di vista. Suggerisco a questo proposito di leggere il saggio Manifesto della cura, per osservare come, anche dopo il riconoscimento dell’essenzialità delle figure in quest’ambito professionale durante la pandemia, si continui a perpetuare la sessualizzazione e la razzializzazione del lavoro. L’assenza di queste persone nel dibattito contro le discriminazioni, compromette la possibilità di far emergere nuovi argomenti e di arricchire il dialogo. Esistono però delle eccezioni di reti capillari di donne immigrate che si sono auto-organizzate perché non trovano spazio nelle reti femministe italiane. Per fare un esempio vorrei citare la Filippino Women Council. Questa associazione, fondata già nel 1991 da donne filippine emigrate in Italia, si propone l’obiettivo di diffondere consapevolezza sui diritti dei lavoratori migranti, facendosi anche portavoce delle istanze delle lavoratrici di cura.


Per approfondire:

Nadeesha Uyangoda https://www.nadeeshauyangoda.it/

Filippino Women Council https://filipinowomenscouncil.org/

Podcast Sulla Razza https://www.sullarazza.it/

Podcast S/Confini https://thesubmarine.it/s-confini/

Uyangoda, N., L’unica persona nera nella stanza, Roma, 66thand2nd, 2021.

Otele, O., Africani europei. Una storia mai raccontata, (trad. ita. a cura di Francesca Pe) Torino, Einaudi, 2021.

The Care Collective, Manifesto della cura, per una politica dell’interdipendenza, (trad. ita. a cura di Marie Moise e Gaia Benzi), Roma, Alege, 2021.