Di Viviana Premazzi
E’ stato un tentativo coraggioso quello di provare a mettere insieme studiosi di discipline diverse, media e sociologia delle migrazioni, e di provare a farli ragionare dal livello locale al livello globale, da una parte all’altra del Mediterraneo, ma è stato di sicuro un viaggio molto interessante per il pubblico che ha partecipato al seminario organizzato da FIERI e IRES lo scorso 13 novembre. Una riflessione da un lato sull’attivismo delle seconde generazioni nei Paesi Europei in risposta a ciò che avveniva nei Paesi di origine dei loro genitori e dall’altra sulla partecipazione politica e sociale “con ogni mezzo” in quegli stessi Paesi di origine, in Nord Africa e Medio Oriente.
Viviana Premazzi, attraverso una presentazione sul ruolo e le pratiche di partecipazione politica delle seconde generazioni egiziane per la costruzione di una comunità egiziana in Italia e per fare la propria parte rispetto alla ricostruzione del nuovo Egitto “tra online e offline”, e Donatella Della Ratta, grazie alla sua profonda conoscenza della realtà mediorientale e siriana in particolare e al suo attivismo di lunga data, hanno provato a fornire al pubblico alcune chiavi di lettura per interpretare i fenomeni passati e presenti e provare ad avanzare qualche ipotesi e qualche speranza sul futuro.
Innanzitutto Donatella Della Ratta ha precisato come sia importante fare attenzione ai termini che vengono usati e che sostengono un certo tipo di narrazione più “occidentale” a discapito di altre più “originali” perché nate nei contesti dove le rivoluzioni stesse sono avvenute.
In particolare, è stato fatto notare come, nei Paesi arabi, le rivolte cominciate nel dicembre 2010 non siano mai state chiamate Primavere Arabe, ma “rivoluzioni”, “rivolte”, appunto, perché, fin dall’inizio, c’è stata una componente di sangue e di violenza e non, come forse avremmo preferito vederle noi, di Primavera, di canti e gioia in piazza Tahrir… e di incorporei cinguettii su Twitter o post su Facebook…
Fin dall’inizio sono state rivoluzioni di corpi, e non solo di tweet, che hanno provocato orgoglio, ma anche senso di colpa, tra chi, Tunisini, Egiziani, Siriani…, “da questa parte”, non poteva essere fisicamente in piazza a lottare per la caduta dei regimi e a rischiare la propria vita per un profondo desiderio di cambiamento, di rivoluzione. E proprio da questo senso di colpa sono nati nuovi desideri e nuove forme di partecipazione in tutti i modi e con tutti i mezzi possibili e, quindi, anche dalle nostre città, c’è stato chi è fisicamente andato per essere in piazza insieme ai proprio connazionali, chi si è impegnato a sostenere a distanza attraverso la condivisione di appelli, di notizie, chi attraverso i social network, chi organizzando dibattiti pubblici e manifestazioni davanti al proprio consolato per attirare l’attenzione delle società europee e occidentali su quello che stava accadendo.
Sono rivoluzioni, poi, che non sono nate da un giorno all’altro, ma, soprattutto in Tunisia e in Egitto, da diversi anni era presente una rete di attivisti più o meno abili con le tecnologie, ma che soprattutto aveva contatti importanti con i grandi media broadcasting. Quello che ha mostrato Della Ratta, da questo punto di vista, è stato come non siano state le tecnologie a fare le rivoluzioni e neanche i sacrifici di alcuni singoli ma, ad esempio nel caso tunisino, un triangolo virtuoso che è riuscito a portare il tweet o il video dalla piazza, attraverso il commento, l’analisi e la traduzione di gruppi organizzati e operanti da anni a livello locale e globale (come Nawaat, Global Voices o altri) alle grosse emittenti televisive, Al Jazeera in primis, ma anche France24 e altre.
Molto diverso, come ha più volte sottolineato, Donatella Della Ratta, il caso siriano, dove il regime ha lasciato meno libertà di associazione e riunione e dove c’era una società civile meno organizzata e più isolata, ma anche più centrale rispetto al mondo arabo, rispetto a quelle di Egitto e Tunisia, più periferiche.
La Siria e la rivoluzione siriana è stata poi il fulcro del dibattito presso il cine-teatro Baretti dove è stato presentato il documentario “#Chicago Girls – The social network takes on a dictator”, del regista statunitense Joe Piscatella.
Nel documentario, dalla sua stanza alla periferia di Chicago, una ragazza, figlia di esuli siriani, coordina attraverso la rete la rivolta in Siria: tramite Facebook, Twitter e Skype aiuta i compagni sul campo a fronteggiare cecchini e bombardamenti e denuncia al mondo le atrocità commesse dal regime di Bashar al Assad. La speranza di Ala’ e dei suoi amici in Siria è che di fronte alle immagini delle atrocità commesse dal dittatore siriano il mondo non rimanga indifferente e intervenga per difendere il popolo siriano.
Purtroppo questo, come anche le notizie che quotidianamente ci arrivano dalla Siria confermano, non è avvenuto e Ala’ e i suoi amici si trovano sul finale del film, a livello personale, a fare scelte diverse che porteranno alcuni a continuare a combattere “usando la macchina da presa” mentre altri decideranno di imbracciare un fucile, fino ad Ala’ stessa a cui non basterà più “partecipare” dalla sua cameretta iperconnessa, ma deciderà di andare in Siria insieme al padre a portare aiuti e medicinali.
Donatella Della Ratta ha commentato il film portando all’attenzione del pubblico una riflessione sul senso stesso di partecipazione e partecipazione democratica poiché, come mostra il film, viviamo in un tempo in cui non mancano le informazioni (video, audio etc.) sulle ingiustizie e le atrocità compiute nel mondo, ma tutto questo non solo non è detto porti a una maggiore partecipazione, ma anche se così fosse, mostra i limiti dell’indignazione e delle forme che questa assume poiché, nonostante partecipazioni e manifestazioni di dissenso nelle più diverse forme, tutto questo, come nel caso siriano, non è bastato a sbloccare situazioni di stallo a livello internazionale e prese di posizioni nette da parte di organismi come le Nazioni Unite. Che ne è allora dell’attivismo e della partecipazione in un mondo digitalizzato e iperconnesso in cui praticamente nessuno può “dire di non sapere”? Qual è il ruolo dell’individuo e delle piazze, delle masse in questi processi? Chi dunque determina veramente i cambiamenti politici?