di Ettore Recchi*
Le utopie a volte si realizzano, ma quando succede si finisce per darle per scontate. Questo destino ironico è toccato al risultato forse più significativo prodotto dall’integrazione europea: il diritto di spostarsi liberamente da uno stato all’altro, con le stesse prerogative dei cittadini del paese in cui si sceglie di risiedere. In un’immagine, l’abbattimento delle frontiere che per secoli hanno segnato la storia insanguinata del continente. E’ l’utopia di un Churchill che, la notte che precede la battaglia di El Alamein, annota: ‘I miei pensieri si concentrano sull’Europa […]. Auspico la formazione degli Stati Uniti d’Europa, in cui le barriere tra le nazioni saranno rese minime e in cui sarà possibile viaggiare senza restrizioni’. E di uno Spinelli che – sempre in quegli anni di guerra – invoca un’Europa unita per ‘assicurare la piena libertà di movimento di tutti i cittadini entro i confini della federazione’.
Con la gradualità e gli stop and go che hanno caratterizzato l’integrazione europea , la libera circolazione delle persone si è venuta progressivamente estendendo e consolidando dagli anni Cinquanta del Novecento ad oggi. Il suo ancoraggio all’istituto della cittadinanza europea – avvenuto con il trattato di Maastricht nel 1992 – ne ha rinforzato lo statuto di diritto che incarna il progetto europeo come progetto in cui si riassumono condizioni di pacifica convivenza, libertà personale e opportunità di vita.
Gli europei – che pure hanno accolto il processo di integrazione senza particolare slancio – non sono rimasti insensibili al fascino di questo diritto e alla visione del mondo che rappresenta. Tant’è che quando l’Eurobarometro chiede cosa sia l’Unione Europea, la risposta prevalente è sempre: la «libertà di viaggiare, studiare e lavorare ovunque nell’UE». Il diritto di libera circolazione è l’Unione Europea nella mente degli europei.
Progressivamente, la platea di coloro che hanno assaporato questo diritto è andata ampliandosi. A ritmi moderati (ma costanti e al di là delle aspettative dettate dai differenziali di reddito, che si sono ridotti), per effetto degli spostamenti degli europei occidentali. In misura più robusta, dal 2004, per l’apporto dei cittadini dei paesi ex comunisti. Le differenze di reddito tra ‘nuova’ e ‘vecchia’ Europa, infatti, hanno stimolato un revival delle migrazioni economiche entro i confini del continente quale non si vedeva dagli anni Sessanta del Novecento. Oggi la crisi economica che sta colpendo alcuni paesi dell’Europa mediterranea sta facendo riscoprire le opportunità che il regime di libera circolazione offre in un mercato del lavoro allargato e privo dei colli di bottiglia con cui devono fare conti i migranti tradizionali. Come è stato notato da più parti, l’afflusso di italiani, spagnoli, portoghesi e greci in Germania nel 2012 è stato superiore del 40-50% rispetto all’anno precedente.
Fig. 1: Vent’anni di europei mobili (stock di cittadini residenti in uno stato membro diverso dal proprio, in migliaia) Fonte: E. Recchi, Senza frontiere, Il Mulino, Bologna, 2013, p. 96
Vi sono attualmente quasi 14 milioni di cittadini europei che risiedono in un paese dell’UE diverso dal proprio (figura 1). Un numero imprecisato vive o lavora in un altro stato membro senza prendervi la residenza – il che è specialmente possibile nelle regioni di frontiera, ma non solo (grazie anche alla fitta rete di voli low cost che consentono pendolarismi arditi). E moltissimi altri hanno fatto in passato l’esperienza di vivere oltreconfine in virtù delle facilitazioni della cittadinanza europea. Un’indagine Eurobarometro del 2010 permette di stimare che il 17,8% dei cittadini europei ha risieduto all’estero per almeno tre mesi consecutivi in passato (quasi tutti probabilmente in Europa). La mobilità intraeuropea – tenendo conto delle diverse forme in cui si manifesta – non è una pratica così di nicchia come spesso si dice.
La centralità della libera circolazione nel processo di integrazione europea la espone però anche agli attacchi di chi vede nell’UE la fonte delle difficoltà del tempo presente. Spesso a fini elettoralistici, strizzando l’occhio ai nazionalisti euroscettici, leader politici e governi minacciano di rimetterla in discussione. E’ già successo in passato (ad esempio, durante la campagna elettorale presidenziale francese del 2012). Torna a ripetersi in queste settimane, con una lettera alla Commissione Europea degli esecutivi di Austria, Germania, Olanda e Gran Bretagna che denunciano – con peculiare vaghezza – ‘truffe’ e ‘abusi’ di cittadini europei mobili nell’accesso ai servizi di welfare nazionali. Contemporaneamente, il governo svizzero, che dal 1999 si è impegnato ad applicare la libera circolazione con l’UE, fa marcia indietro e si appella a una ‘clausola di salvaguardia’ per imporre quote di accesso ai cittadini comunitari. In maniera più sotterranea, ad alcune frontiere interne dell’Unione si ricominciano a registrare controlli di passaporti e documenti di identità in barba alle regole di Schengen (secondo le segnalazioni di un sito ad hoc: freemovement.net).
Commissione Europea e Corte Europea di Giustizia si sono sempre erte a difesa della libera circolazione, reprimendo aggiramenti e soprusi di varia natura – in molti casi, ad opera degli stati membri desiderosi di mantenere qualche privilegio per i propri cittadini nazionali. Che ciò succeda nell’Anno Europeo dei Cittadini suona triste e beffardo. E a maggior ragione nel bel mezzo del più grave ‘choc asimmetrico’ tra le economie del continente mai registrato dalla fine della seconda guerra mondiale. E’ proprio in momenti come questi che la mobilità dei lavoratori – gli economisti lo hanno sottolineato anche in tempi non sospetti – costituisce un meccanismo importante di riequilibrio sistemico e, quindi, di beneficio diffuso. Forse mettere in comune i debiti nazionali esige uno sforzo di generosità né giusto né politicamente sostenibile da parte degli stati membri più ricchi. Ma far leva sulla libera circolazione è il minimo sindacale della solidarietà europea. Se cade anche quest’ultimo bastione, vuol dire che la china della disintegrazione è già stata imboccata.