Welfare transnazionale: un libro e una nuova prospettiva sul nesso migrazioni-welfare

Intervista a Flavia Piperno, ricercatrice del Centro Studi di Politica Internazionale di Roma e autrice, con Mara Tognetti Bordogna (Università di Milano-Bicocca), del volume Welfare Transnazionale: la frontiera esterna delle politiche sociali, appena pubblicato da Ediesse. Per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo l’introduzione di Mara Tognetti Bordogna e Flavia Piperno.

wtFIERI: Cosa vuol dire welfare transnazionale? Quali sono i bisogni e i problemi specifici a cui questo approccio intende dare delle risposte?

Flavia Piperno: Con Welfare transnazionale ci riferiamo alla dinamica d’interdipendenza tra sistemi sociali ai due poli del processo migratorio, al delinearsi di problematiche e opportunità comuni e, come conseguenza di ciò, all’emergere di una sfera in cui la co-gestione dei processi sociali legati alla migrazione diviene un elemento importante per rispondere a problematiche e potenzialità cruciali per i regimi di welfare su entrambe le sponde del processo migratorio. Da diversi anni gli studiosi della globalizzazione politica hanno posto l’accento sulla necessità di riconoscere la portata globale di molti problemi, che richiedono quindi soluzioni globali (Back e Grande, 2006; Yeates, 2004; Bretherton, 1996; Deacon et al. 1997). Raramente, però, nel solco di questi studi, è stata affrontata la questione dell’impatto sociale delle migrazioni e dei processi di convivenza tra stranieri e autoctoni. Il volume Welfare Transnazionale: la frontiera esterna delle politiche sociali contribuisce a colmare questuo vuoto.

Il termine “welfare transnazionale” è stato lanciato nel 2005 dal CeSPI nell’ambito di una ricerca, diretta da Ferruccio Pastore, che analizzava l’impatto del crescente ricorso ad assistenti familiari stranieri sui loro stessi contesti di provenienza [1]. Ci appariva chiaro come sistemi di welfare collocati alle due sponde del processo migratorio fossero legati da rapporti di interdipendenza crescente. Il mercato della cura privata, che consente alle famiglie italiane di ritrovare un equilibrio interno, nonostante il crescente impegno lavorativo delle donne e il progressivo invecchiamento della popolazione, impone, infatti, un drenaggio di risorse di cura dalle famiglie di origine e dunque, potenzialmente, un indebolimento della coesione sociale in loco. Nel contempo, la possibilità per il nostro sistema di welfare di risparmiare risorse, grazie alla mancata spesa in prestazioni socio-sanitarie, obbliga i sistemi di welfare locali ad aumentare la spesa per far fronte a nuovi bisogni di servizi alle persone scaturiti dalla migrazione, e in particolare dall’emigrazione femminile. Nel corso di quei primi studi analizzavamo, come anche i sistemi di welfare nei contesti di origine fossero dipendenti da risorse esterne, ed in particolare, come gli aiuti internazionali e le rimesse (specie quelle femminili, maggiormente rivolte al welfare familiare) costituissero un potente mezzo di lotta alla povertà e crescita sociale per le famiglie nei paesi di emigrazione.

Nel corso di studi successivi, la prospettiva del welfare transnazionale ci è apparsa utile per analizzare come gran parte dei bisogni sociali connessi ai flussi migratori, e dunque anche la domanda di servizi alla persona, si sviluppi, di fatto, a cavallo tra paese di origine e di arrivo e richieda, dunque, di ripensare parte delle politiche di welfare indirizzate ai migranti attraverso una maggiore apertura e collaborazione con i contesti di origine. Gli stessi processi di integrazione, che noi giustamente gestiamo attraverso politiche locali, hanno di fatto radici lontane e sono fortemente influenzati da quanto accade nei contesti di origine. L’Agenda europea per l’integrazione dei cittadini dei paesi terzi pubblicata nel luglio 2011, aggiornando il testo del 2005, correttamente promuove questa prospettiva, definendo l’integrazione come un processo transnazionale che va sostenuto assicurando il dialogo con i principali stakeholders a tutti i livelli di governance, anche in collaborazione con i paesi di origine. Queste raccomandazioni sembrano aprire la strada per una strategia in grado di andare oltre la ristretta logica del nesso tra ‘politiche di integrazione’ e ‘politiche di ammissione’. Il nostro volume punta a dare un contributo alle riflessioni che si stanno sviluppando in quest’ambito.

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FIERI: Il vostro libro è ricco di riferimenti a pratiche concrete. Ci potresti fare alcuni esempi di politiche di welfare transnazionale che ti sembrano particolarmente innovative e/o riuscite?

FP: Tutte le politiche e le pratiche raccontate nel nostro volume parlano della possibilità di gestire il processo di integrazione dei migranti (in entrata e di ritorno) attraverso collaborazioni tra strutture e servizi sociali ‘qui’ e ‘lì’: strutture per la promozione dell’impiego, strutture per la formazione e la certificazione dei titoli, cooperative sociali che lavorano in ambito socio-sanitario, servizi consultoriali, etc.

Il caso dell’ONG Soleterre di Milano che ha costruito centri gemelli di counseling psico-sociale per le famiglie, a cavallo tra Milano, L’viv (Ucraina) e Chalatenango (El Salvador), mi sembra un ottimo esempio. La rete dei servizi gemelli sostiene la famiglia transnazionale concependola come unità, attraverso politiche integrate ed équipe operative speculari ai due poli del processo migratorio. L’intervento di Soleterre è interessante anche perché, lavorando sui legami a distanza tra genitori emigrati e figli e sul processo di ricongiungimento nel suo compiersi, ci ricorda che non possiamo trascurare l’impatto delle nostre politiche sui contesti di origine. Esemplificativo è proprio il caso dei minori detti left behind – che trascorrono un lungo periodo di separazione dalla madre e che – come dimostrato da alcuni studi empirici (Palmas e Torre, 2005; Ambrosini, Bonizzoni e Caneva, 2009) – sono proprio quelli che presentano maggiori problemi di integrazione al momento del ricongiungimento. Se il care drain sembrava un problema lontano, improvvisamente rischia di trasformarsi nel problema della nostra generazione 1,5.

FIERI: Stiamo parlando di progetti pilota da mettere in vetrina o di un approccio che può essere eletto a sistema? Entro quali limiti e condizioni questi esempi sono replicabili?

FP: Come ricorda Livia Turco nella sua prefazione, la Legge 328/2000 ha formalizzato a livello normativo ciò che ormai fa parte di una cultura acquisita: ovvero che solo una rete integrata tra servizi è in grado di gestire fenomeni sociali complessi. La crescita dei flussi migratori e la progressiva stabilizzazione delle comunità straniere all’estero ci obbligano a pensare questa rete anche in una prospettiva transnazionale. Gli “accordi di nuova generazione” descritti da Natale Forlani nell’ambito dell’intervista rilasciata a Fieri per questo sito, ad ottobre scorso, vanno in questa direzione, immaginando una gestione dei flussi migratori attraverso un processo di formazione e reclutamento all’estero (art. 23 T.U. 286/1998) inquadrato nell’ambito di una rete transnazionale tra uffici del lavoro. Questa stessa impostazione, come ricordano Giulia Henry e Sara Monterisi nel nostro volume, può essere estesa alla gestione più complessiva dei processi di integrazione dei migranti in entrata e di ritorno. Pensare ad un sistema di governance transnazionale dei processi sociali legati alla migrazione reca in sé la scommessa e l’opportunità di superare un approccio unicamente basato sul progetto-pilota.

FIERI: In tempi di crisi e di tagli ai bilanci non è un lusso per un paese come l’Italia prendere in carico i problemi che l’emigrazione causa nei paesi d’origine?

FP: A livello scientifico, negli anni ’70 e ’80, la corrente di pensiero neo-marxista aveva rigorosamente negato la possibilità di una convergenza di interessi tra paesi di destinazione e paesi di approdo: il sottosviluppo dei paesi del Sud, dovuto al trasferimento di risorse cruciali per la loro crescita, tra cui la stessa forza lavoro, era identificato come la precondizione dello sviluppo del Nord. La letteratura sulle catene delle cura ha esteso questa visione al concetto delle relazioni interpersonali e dell’amore: sottratte ai paesi poveri attraverso il massiccio ricorso a lavoratrici di cura. Gli studi sulla globalizzazione delle politiche sociali si ispirano maggiormente a una concezione di “cosmopolitismo reale” (Beck e Grande, 2006) che pone enfasi sul comune interesse e gestire problematiche comuni. Non si tratta solo di compensare un drenaggio nei paesi di emigrazione e di risolvere i ‘loro’ problemi, ma di riconoscere l’efficacia e dunque il reciproco interesse (condiviso da paesi di origine e di arrivo) ad un agire collaborativo su problematiche comuni.

In pratica, riteniamo che la solidarietà vada pensata su scala sistemica e complessiva e che la valorizzazione delle reti già esistenti possa giocare un ruolo positivo anche per incrementare la sostenibilità finanziaria delle iniziative. I lettori saranno sorpresi nel constatare che una parola frequentemente utilizzata dagli autori dei contributi proposti è “basso costo delle iniziative” (si vedano i saggi di Ghibelli, Ligabue e Ceschi nel volume), e questo proprio grazie alla capacità di attivare e mettere in rete una pluralità di soggetti già operanti sui diversi territori; a tale strategia si aggiunge, del resto, come nel caso della cooperativa “Anziani e non solo”, l’utilizzo delle nuove tecnologie che consentono di raggiungere un vasto bacino di destinatari, promuovendo economie di scala e svincolando le iniziative dai singoli territori.