Innovazione sotto pressione? il caotico sviluppo delle politiche attive del lavoro per migranti e rifugiati. Riflessioni intorno a un recente seminario

di Leila Giannetto e Gaia Testore

Sia che si parli di “migranti economici” che di rifugiati, da tempo la ricerca ci ha insegnato come il lavoro rappresenti la principale porta di ingresso in una nuova comunità. Specialmente a partire dalla seconda decade degli anni 2000, i documenti programmatici nazionali ed europei si sono concentrati sul sostegno a misure e strategie volte a facilitare l’integrazione dei cittadini stranieri, promuovendo soprattutto l’apprendimento della lingua nazionale, il riconoscimento delle competenze acquisite nel paese di origine (che si fa fatica a vedere riconosciute nel paese di destinazione), l’avvio di tirocini e di percorsi di formazione. Nello stesso periodo, si sono moltiplicati gli interventi realizzati da enti privati, anche in partnership con il pubblico, volti a facilitare l’accesso al mercato del lavoro per i cittadini di origine straniera. 

Gli ultimi anni sono stati caratterizzati dall’aumento del numero di ingressi per motivi umanitari, a scapito dei flussi di lavoro. La repentina variazione del numero di richieste di protezione, soprattutto tra il 2015 e il 2017, se da una parte ha messo in luce le numerose fragilità del sistema di accoglienza e di integrazione italiano, ha dato anche la spinta allo stanziamento di fondi che sono stati e continuano ad essere essenziali per la sperimentazione e l’innovazione. Se in quegli anni le repentine mutazioni avevano spostato l’attenzione sui migranti richiedenti asilo, ora, con il calo degli arrivi, ma anche con gli effetti della pandemia, del decreto rilancio e della regolarizzazione (circa 207.000 domande), altri temi stanno acquisendo rilevanza. Tra le nuove sfide troviamo la necessità di mantenere al lavoro i regolarizzati, di mitigare l’impatto dell’emergenza pandemica e soprattutto di non dimenticare le specificità dei richiedenti asilo e rifugiati che rimangono le categorie più a rischio tra gli stranieri, non comunitari.

La Sessione 26 “Innovazione sotto pressione? il caotico sviluppo delle politiche attive del lavoro per migranti e rifugiati” organizzata da FIERI nel quadro della conferenza Espanet Italia 2020, ha guardato al frammentato panorama delle politiche di inserimento lavorativo dei cittadini stranieri arrivati dopo il 2014. Scopo della sessione è stato proprio quello di volgere lo sguardo a questo ambito di intervento, in continuo cambiamento, che rappresenta un campo di azione condiviso tra tradizionali attori delle politiche per il lavoro, come centri per l’impiego e sindacati, ed enti del terzo settore che si occupano di accoglienza e integrazione. Le sperimentazioni bottom-up qui sviluppate sono state numerose, sebbene avvenute spesso in assenza di un quadro organico. A livello nazionale, infatti, il Piano Nazionale Integrazione, siglato nel 2017, non ha avuto un impatto sistemico. Tuttavia la confusione regna anche a livello locale, dove capita, ad esempio, che richiedenti asilo residenti nella stessa provincia (o comune) accolti da enti gestori diversi abbiano accesso a servizi di integrazione completamente differenti. Situazione non certo aiutata dalle travagliate vicende delle riforme dei servizi del lavoro e del sistema dell’accoglienza.

A partire, dunque, dalla descrizione del “caotico sviluppo” delle politiche per l’integrazione nel mercato del lavoro, la sessione ha proposto a un gruppo di ricercatori e operatori di riflettere sulle misure innovative portate avanti in Italia per migranti, richiedenti asilo e rifugiati e sulla loro efficacia.

Il dibattito ha preso il via da un interrogativo radicale sollevato da Maria Perino e Michael Eve (Università del Piemonte Orientale): “e se le strategie e le misure fino a questo momento adottate non fossero quelle adatte?” “e se si stesse perdendo di vista un aspetto centrale del problema?”. Partendo da una rassegna dei fattori che contribuiscono a spiegare il refugee gap – ovvero il sistematico svantaggio lavorativo dei rifugiati, non solo rispetto ai nativi ma anche ai migranti giunti in Italia per motivi di lavoro-, Maria Perino e Michael Eve hanno posto l’attenzione sulle fragilità delle reti sociali di cui possono usufruire i migranti forzati. All’interno del loro contributo si osserva come questo aspetto sia solo marginalmente toccato dalle misure messe in atto in Italia.

Sono seguiti interessanti contributi che hanno aiutato a mettere in luce quelle dinamiche che rendono l’ambito delle politiche attive per il lavoro rivolte al target dei migranti e rifugiati un settore sotto pressione ma ricco di sperimentazioni. Diverse sono, infatti, le forze che rendono il lavoro degli operatori e dei funzionari impiegati nel settore particolarmente complesso. Tra queste, la precarietà delle opportunità di lavoro che più facilmente sono offerte a migranti e rifugiati e la difficoltà di tutela dei diritti in settori quali l’agricoltura, la logistica e l’assistenza familiare. A questo proposito l’intervento realizzato da Ilaria Ippolito, Martina Sabbadini e Antonio Soggia (IRES Piemonte) ha offerto un utile spaccato sulla complessità che si incontra nella programmazione e realizzazione di interventi a tutela dei diritti dei migranti nel settore agricolo, presentando una panoramica dettagliata dei progetti nati nel Saluzzese negli ultimi anni.

Un ulteriore elemento di difficoltà nasce dal fatto che gli interventi in questo campo usufruiscono perlopiù di finanziamenti mirati, spesso legati a progetti europei. Ne consegue una cronica mancanza di istituzionalizzazione, con interventi limitati a misure puntuali e circoscritte nel tempo. Anche quando i soggetti esecutori siano determinati a rinnovare e consolidare gli interventi, l’assenza di meccanismi di up-scaling costringe a una costante e impegnativa attività di ricerca di fonti di finanziamento, ostacolando l’apprendimento e la diffusione di pratiche risultate funzionali. Gli interventi di Giorgia Trasciani (Université Aix-Marseille) e di Mattia Collini (Università di Firenze) hanno contribuito a illustrare queste dinamiche. Collini, ha posto l’accento sulla capacità delle reti di mobilitare stakeholders diversi con l’intento comune di sperimentare forme nuove di servizi di inserimento lavorativo. Con riferimento alla realtà campana, invece, Trasciani ha analizzato le dinamiche disfunzionali legate alla concatenazione di progetti successivi, con conseguente frammentazione territoriale e di partenariato degli interventi e evidenziato come nell’operato dei responsabili degli interventi stessi vengano a inserirsi logiche più legate alla progettazione e alla ricerca delle risorse che al benessere del beneficiario, elementi che senza essere per forza in contrasto tra di loro deviano però l’azione degli operatori.

L’emergenza pandemica e le misure ad essa collegate generano ovviamente nuove sfide. Attraverso i dati raccolti proprio nel periodo marzo – aprile 2020 in Piemonte, il contributo di Giulia Henry e Giorgio Vernoni (IRES Piemonte) ha fornito un’ulteriore evidenza empirica rispetto al fenomeno del refugee gap. Lo studio ha evidenziato che, nonostante i settori economici meno colpiti dal lockdown siano sanità e assistenza e lavoro domestico, in cui sono impiegati in gran parte gli stranieri, la preferenza dei datori di lavoro va ai migranti comunitari piuttosto che agli stranieri extracomunitari. Rifugiati e richiedenti asilo risultano invece essere impiegati per il 74% in professioni a bassa qualifica (mentre gli stranieri con altri permessi di soggiorno non superano il 51%), per il 63% con contratti atipici (contro una media del 40% per gli altri stranieri) e per il 46% in agricoltura. In tali condizioni di forte segregazione occupazionale la loro fragilità rischia di essere ulteriormente accentuata dallo shock esogeno rappresentato dalla pandemia. Infine, il contributo di Henry e Vernoni, così come il contributo di Ippolito, Sabbadini e Soggia per il settore agricolo, hanno delineato alcune raccomandazioni per l’elaborazione delle politiche, come ad esempio l’accompagnamento individualizzato e la promozione di occasioni di incontro diretto tra domanda e offerta e la costruzione di una rete sovra-regionale di collaborazione che permetta di creare condizioni di reciprocità e scambio nel collocamento della manodopera stagionale in agricoltura.


La sessione “Innovazione sotto pressione? Il caotico sviluppo delle politiche attive del lavoro per migranti e rifugiati in Italia” si inserisce nel quadro di una serie di attività di Fieri e delle coordinatrici, Leila Giannetto e Gaia Testore, sul tema. Di particolare rilevanza il progetto Labour-Int, progetto FAMI europeo iniziato nel 2016 e oggi alla seconda edizione, che si occupa dell’integrazione dei migranti nel mercato del lavoro con un approccio multi-stakeholder. Labour int è stato e continua ad essere un laboratorio in cui vengono affrontati in particolare il tema della valutazione e valorizzazione delle competenze di rifugiati e migranti, e all’interno del quale Fieri si occupa di valutazione dell’implementazione dello EU Skills Profile Tool for Third Country Nationals della Commissione Europea e della mappatura delle esperienze in ambito ICT che favoriscono l’inserimento di rifugiati e migranti. Le coordinatrici si sono occupate singolarmente anche della raccolta ed analisi di esperienze e buone pratiche di integrazione socio-lavorativa sia a livello italiano che a livello europeo. A livello italiano vengono costantemente raccolte ed aggiornate esperienze per lo European Web Site on Integration, mentre si stanno analizzando nello specifico le esperienze avviate in aree extra-urbane/interne attraverso il progetto H2020 Welcoming Spaces e il progetto MIGLIORA. Si segnalano infine i lavori prodotti per OCSE e la consulenza per IOM per uno studio delle pratiche di inserimento lavorativo di rifugiati in Italia e in Europa finanziato dalla Commissione Europea per l’implementazione del Piano Nazionale Integrazione per Titolari di Protezione Internazionale.